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mercoledì, 9 Ottobre 2024

Non tutto è in superficie: alla scoperta degli infernotti

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Scritto da Gabriele Richetti
L’infernòt
C’è stato un tempo in cui la conservazione di cibi e bevande rappresentava per le famiglie un problema di non facile soluzione, vuoi per la quantità di vivande bastevoli per i numerosi nuclei dell’epoca, vuoi per la temperatura necessaria a preservare le scorte alimentari.
In Piemonte, in città come nelle campagne, per far fronte a questi problemi di conservazione, nella seconda metà del XIX secolo si escogitò un sistema ingegnoso e molto efficace: l’infernòt.
Funzione dell’infernotto
L’infernotto è un locale sotterraneo, privo di luce e di aereazione diretta, scavato nella pietra arenaria o nel tufo, al fine di conservare vino e cibarie. Nato insieme alla cantina, presto si differenzia da quest’ultima, diventando una stanza adibita principalmente alla conservazione delle bottiglie di vino.
Il termine dialettale piemontese infernòt pare derivare dall’antico provenzale enfernet, parola che indicava la prigione e dunque una stanza angusta e buia. L’etimologia stessa lo distingue quindi dalla cantina, un locale sì sempre sotterraneo, ma solitamente di dimensioni decisamente più ampie.
Costruiti “alla buona”, da persone spesso prive di nozioni di ingegneria, gli infernotti hanno resistito a decenni di umidità grazie alla consistenza della pietra in cui sono stati scavati, giungendo sino ai giorni nostri.
A camera singola, multicamera, semplicemente scavato nella roccia o dotato di corridoi e scaffali: ogni infernotto era diverso dagli altri. Alcuni erano persino dotati di ghiacciaia, il che consentiva al proprietario di conservare, oltre al vino, anche tipologie di cibo deperibili.
In collina e in città
Gli infernotti nascono nelle campagne piemontesi, vista la tradizione vinicola della Regione, ma presto si sviluppano anche nelle città, a Torino in particolar modo.
Per quanto riguarda le campagne, una zona ricca di infernotti è quella del Basso Monferrato: Ottiglio, Grazzano Badoglio, Vignale Monferrato conservano diversi esempi di queste stanze ricavate sottoterra; l’intero Piemonte è in ogni caso costellato di infernotti: la zona del Canavese e quella delle Langhe astigiane conservano molti infernotti, differenti per modalità di costruzione e dimensioni.
Anche a Torino (c’erano e) ci sono ancora oggi esempi notevoli di infernotti: in città la funzione originaria dell’infernotto si univa a soluzioni strategiche di fuga o nascondiglio. Pare che dal Caffè del Progresso in Corso San Maurizio (ritrovo dei Carbonari), in caso di irruzione delle guardie, tramite gli infernotti si potesse fuggire fino alle gallerie della Cittadella. Dal Cimitero di San Pietro in Vincoli, secondo le cronache, camminando esclusivamente sottoterra si raggiungeva via Garibaldi (all’epoca via Dora Grossa).
Molti infernotti furono adibiti, durante la Seconda Guerra Mondiale, a rifugio antiaereo durante i bombardamenti. È il caso dei locali di Palazzo Carignano e di Palazzo Saluzzo Paesana.
All’infernotto di quest’ultimo è legato un importante fatto di cronaca nera.
Il caso di Veronica Zucca, la bimba degli infernotti
Come detto, Palazzo Saluzzo Paesana a Torino presenta ancora oggi degli infernotti molto ben conservati. Gli infernotti del palazzo furono teatro, all’inizio del ‘900, di uno dei casi più famosi di cronaca nera torinese.
A quel tempo il palazzo era abitato da diverse famiglie e da alcuni discendenti del Conte che aveva costruito l’edificio.
Il 12 gennaio del 1902, la piccola Veronica Zucca, figlia dei titolari del Caffè Savoia, che si affacciava sull’omonima piazza, scomparve nel nulla. Si sospettò subito di un ex cameriere del bar, che però fornì un alibi inattaccabile e fu rilasciato. Le ricerche non portarono a nessun risultato.
I genitori della bambina persero le speranze e i mesi passarono. Un giorno un falegname venne chiamato a Palazzo Saluzzo Paesana per effettuare alcuni lavori di manutenzione nei sotterranei. Una volta sceso negli infernotti del palazzo, spostando una vecchia cassa di legno ne scoprì il macabro contenuto: erano i resti della piccola Veronica, uccisa con sedici coltellate prima di essere nascosta nel baule.
La città intera aveva bisogno di un colpevole: il padre di Veronica, il cocchiere del palazzo, nuovamente l’ex cameriere, tutti vennero ritenuti possibili sospettati. Tuttavia, ancora nessun indizio.
Nel maggio del 1903 scomparve una seconda bambina, Teresina Demaria, che aveva cinque anni e abitava in Via della Consolata. Furono subito controllati gli infernotti del Palazzo e fortunatamente, sotto alcuni stracci e vecchi pezzi di legno, fu ritrovata Teresina: era ancora viva.
A quel punto, il portiere del palazzo si ricordò di aver fornito le chiavi dell’infernotto a uno spazzino, che negli ultimi tempi era stato visto aggirarsi spesso in Piazza Savoia. Lo spazzino si chiamava Giovanni Gioli, ed era semi-infermo di mente: la città aveva finalmente il suo colpevole. Durante il processo, che non fornì comunque certezze sulla sua colpevolezza, Gioli rimase inebetito, con uno strano ghigno sul viso, senza difendersi dalle accuse.
La popolazione chiedeva la pena di morte, ma viste le sue condizioni psichiche, Gioli venne condannato a venticinque anni di carcere. Dopo otto anni morì in carcere, e con lui scomparve la possibilità di scoprire chi era stato il vero colpevole dell’assassinio della piccola Veronica Zucca.

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