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sabato, 27 Luglio 2024

Referendum, Regioni e Sanità: non è colpa della Costituzione!

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di Nerina Dirindin

Perché solo in alcune regioni le persone affette da sarcoidosi sono esenti da ticket? Perché l’analgesia epidurale al momento del parto non è garantita senza oneri per l’assistita in tutto il Paese? Perché lo screening neonatale per la sordità congenita è riconosciuto e organizzato solo in alcuni ospedali? Perché la sanità pubblica di molte regioni non eroga gratuitamente le prestazioni per la procreazione medicalmente assistita? Perché gli ex internati nei manicomi giudiziari beneficiano in alcune regione di una assistenza rispettosa della dignità a cui tutti hanno diritto, mentre altri sono ancora internati nei manicomi che la legge ha chiuso da tempo?

Molte sono le domande che potremmo porci per cercare di capire come si può migliorare l’accesso ai servizi sanitari su tutto il territorio nazionale. Ma nonostante le sommarie affermazioni di molti osservatori, la risposta a tali quesiti non ha nulla a che vedere con la Costituzione vigente, bensì con la sua corretta attuazione.

L’offerta di servizi nelle regioni è differente principalmente perché il livello centrale per molti anni: a) non è stato in grado di esercitare le competenze che detiene in via esclusiva, in particolare non è riuscito ad aggiornare i livelli essenziali di assistenza (Lea), ancora fermi a quelli del 2001, nonostante la materia sia attribuita in via esclusiva allo Stato (ma finalmente siamo prossimi a un aggiornamento), b) non ha saputo dotarsi di un sistema di monitoraggio e controllo del rispetto dei diritti dei cittadini, utile a segnalare con tempestività le carenze più gravi sui territori, e c) non è riuscito a dare attuazione all’articolo 120 della Costituzione vigente, il quale prevede che il Governo possa esercitare poteri sostitutivi nei confronti delle Regioni qualora lo richieda “la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

In breve, molte delle debolezze sono, purtroppo, ascrivibili al livello centrale.

E a fronte dei ritardi e delle inerzie dello Stato, le regioni hanno reagito in modo differente. Le Regioni tecnicamente e politicamente più attrezzate hanno provveduto autonomamente, avanzando con speditezza lungo il sentiero della qualificazione e dell’innovazione, anche a prescindere dal livello di competenze legislative loro assegnate: hanno garantito a loro spese prestazioni innovative non comprese nei Lea, hanno centralizzato gli acquisti, hanno diffuso l’impiego dei farmaci generici, ecc. Al contrario, le Regioni meno attrezzate, per di più storicamente in partenza da punti più arretrati, si sono mosse lentamente e con scarsa capacità innovativa, e di conseguenza hanno visto aumentare il loro divario. Le regioni più mature hanno capito che il loro compito era rispondere ai bisogni dei cittadini e non solo adempiere alle norme statali o anticipare i monitoraggi centrali (peraltro piuttosto insoddisfacenti), mentre le regioni più in ritardo hanno confidato nella clemenza dei controlli statali, senza grande attenzione ai concreti bisogni delle persone, in particolare dei più deboli. Non che le Regioni non abbiamo responsabilità anche gravi rispetto alla tutela della salute, soprattutto negli ultimi anni, ma ciò che è mancato è la testimonianza di chi doveva mostrarsi garante dei diritti dei cittadini, evitando di far crescere un terreno fertile per le inadeguatezze dei livelli inferiori di governo.

A fronte di tale situazione, ciò che serve non è tanto una centralizzazione delle competenze, ma una maggiore responsabilizzazione di tutti i decisori ai temi della tutela della salute. Anzi, la centralizzazione rischia di creare aspettative troppo ottimistiche, favorire atteggiamenti di adempimento da parte delle realtà meno dinamiche, rinviare ulteriormente i problemi.

Anche la soluzione della soppressione della legislazione concorrente (comma 3 dell’articolo 117) pare critica. Le competenze dello Stato in materia di “tutela della salute” passano infatti dalla determinazione dei “principi fondamentali”, dell’attuale ordinamento, alla determinazione delle “disposizioni generali e comuni”, come proposto dalla riforma. Tale passaggio non può che essere considerato insoddisfacente. Per evitare incertezze e contenziosi si sarebbe potuto fare riferimento alle categorie giuridiche già presenti nella Costituzione e sulle quali la Corte Costituzionale si è già espressa più volte: i principi fondamentali (che informano altre norme) e le norme generali (che devono essere applicate in modo unitario e uniforme in tutto il territorio). Le disposizioni generali e comuni sono al contrario una vera e propria novità, introdotta – su richiesta delle Regioni – per evitare scelte delicate e potenzialmente divisive al solo scopo di rinviare al futuro la decisione. La delimitazione del perimetro delle disposizioni generali e comuni resta tuttavia incerto ed è lasciata alle future scelte di Governi e Parlamento. In ogni caso l’applicazione della nuova formulazione richiederà tempo, interpretazioni e ulteriori pronunciamenti della Corte. Un po’ poco per una riforma che avrebbe dovuto superare la legislazione concorrente perché imputata di essere responsabile, secondo un’analisi in verità molto sommaria e in gran parte infondata, del contenzioso fra Stato e Regioni e delle differenze interregionali nell’assistenza erogata.

Per queste ragioni è saggio votare No al Referendum.

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