A Stepanakert la gente terrorizzata si nasconde nelle cantine o fugge in attesa dell’arrivo dei soldati azeri, con il rischio concreto di eccidi. Questo in attesa di un tardivo intervento della diplomazia internazionale che riprenda le trattative su una causa ormai persa: quella del Nagorno Karabakh , quello che per gli armeni è da sempre l’Artsakh che significa “giardino nero di montagna”.
E’ l’ultimo briefing sulla guerra che ha insanguinato le montagne del sud del Caucaso e che ha avuto una svolta definitiva con l’attacco lampo azero che ha messo fine alla piccola repubblica, autoproclamatasi indipendente nel 1992, che per gli armeni è da sempre l’Artsakh che significa “giardino nero di montagna”. L’enclave armeno , incastrato in un‘area povera e montagnosa, all’interno del musulmano Azerbaijan, (ex repubblica sovietica) per gli ipernazionalisti azeri costituisce una perdita di sovranità inaccettabile che ha dato origine a tre sanguinosi conflitti in trent’anni, accompagnati da scarsa attenzione internazionale.
Con un’azione bellica, definita antiterroristica, in poche ore i bombardamenti azeri han costretto alla resa una comunità stremata da nove mesi di isolamento. Una sorta di spallata finale, realizzata in un contesto di abbandono internazionale, già evidente da tempo nel silenzio sul blocco che ha isolato e indebolito l’enclave cristiano. L’attacco ha fatto seguito ad un ultimatum in cui Baku richiedeva il ritiro completo dei militari armeni dall’area contesa. Una presenza militare negata da Erevan, con la richiesta di un intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Ma il procedere vorticoso degli eventi e delle armi ha reso questa cronaca ormai un dettaglio di fronte alla nuova emergenza umanitaria legata all’inevitabile esodo di migliaia di persone, per evitare eccidi e operazioni di pulizia etnica sugli armeni in fuga. Per Tigran Balayan, ambasciatore armeno presso l’UE, è in corso una sorta di Srebenica del 2023, con azioni di pulizia etnica nel Nagorno Karaback.
Nonostante le critiche resta centrale il ruolo di Mosca, come mediatore tra le parti, per la firma di un trattato di Pace e la gestione degli aiuti umanitari. Un’azione che ha portato alla fissazione di un primo cessate il fuoco (mercoledì 20 settembre) e all’apertura di negoziati con Baku su posizioni di forza, dopo una vittoria strategica e politica importante, mentre per l’umiliata Armenia potrebbe aprirsi una fase pericolosa di destabilizzazione.
Con questo obiettivo il 5 ottobre a Granada è stato finalmente fissato un incontro con Francia, Germania e la presidenza della Commissione europea a cui Baku si presenterà su posizioni di forza rispetto all’Armenia che, in forte difficoltà, che richiede l’intervento immediato nella zona contesa di una missione delle Nazioni Unite, non fidandosi delle rassicurazioni e dei buoni propositi di facciata di Baku, ricordando come in questi mesi i suoi appelli siano stati sempre ignorati dalla comunità internazionale. Un quadro alquanto debole per gli armeni dopo che, nel 2020, gli azeri con un’altra guerra lampo estremamente sanguinosa, si ripresero il controllo di gran parte del territorio dell’enclave dei separatisti cristiani.
Sul piano diplomatico è da segnalare l’attenzione del Vaticano per cercare di arrivare ad una tregua che mettesse fine allo spargimento di sangue, come manifestato anche dallo stesso Papa Francesco.
Quella del Nagorno Karabakh è una vicenda drammatica, poco seguita dai media, che ha riportato alla memoria il genocidio strisciante, (mai ammesso dai turchi) che tra il 1915 e 1923 causò la morte di oltre un milione di armeni, attraverso deportazioni di interi villaggi verso aree desertiche, dove le persone che sopravvivevano alle “marce della morte” venivano abbandonate al loro destino.
Il giogo azero sugli aiuti umanitari
Nel silenzio internazionale e della Russia, presente nell’area con un importante contingente di peacekeepers impegnato nel sostegno e la sicurezza delle popolazioni, le trattative, aperte dopo la resa, dovrebbero almeno garantire la sicurezza dei 120mila abitanti (numerosi gli anziani e bambini), molti già in fuga dalla piccola repubblica indipendentista in dissoluzione. Ma il rischio di ulteriori violenze resta alto tra due realtà da sempre in atavico conflitto.
Una comunità cristiana come detto allo stremo per il blocco, attuato da nove mesi dagli azeri, sull’unico corridoio (Lechin) che assicurava l’arrivo nell’enclave di beni di sussistenza dall’Armenia. Proprio in queste ore la Croce Rossa Internazionale sta facendo arrivare 70 tonnellate di aiuti umanitari già oggetto di polemiche e difficoltà per gli escamotage azeri che, a fronte di una grave emergenza umanitaria, hanno di nuovo chiuso il corridoio di Lachin. Per fortuna, grazie una mediazione, è riuscita a passare una parte degli aiuti verso la popolazione dell’enclave affamata e terrorizzata. Ma il quadro resta teso e preoccupante perché gli azeri intendono far passare gli aiuti attraverso i territori conquistati da Baku nella guerra del 2020, bloccando “la via breve” di Lachin. Una sorta di scacco che vede gli aiuti umanitari sotto il giogo di un rubinetto che gli azeri possono chiudere quando vogliono. Quello del corridoio di Lachin sarà un punto chiave della trattativa sempre che sopravviva un barlume d’Armenia nell’enclave.
Perché Mosca si allontana da Erevan
Gli armeni si sentono traditi dallo storico alleato russo, rimasto inerte, sia per il blocco del corridoio di Lachin, nell’attacco portato avanti da Baku sull’enclave armeno. Un attacco che in poche ore ha annientato la resistenza della piccola repubblica indipendentista con un bilancio impreciso di centinaia di morti.
Un grande successo per il leader azero Ilham Aliyev che aveva da sempre come obiettivo quello di cancellare quella presenza anomala armena sul proprio territorio.
Un leader molto ricco (re del caviale) che governa da vent’anni con il pugno di ferro questa etnocrazia, mentre suo padre aveva guidato l’Azerbaijan nei precedenti venti anni. Un paese ricco di gas, petrolio e preziosi minerali. Un fattore economico che certo ha avuto il suo peso nel vergognoso silenzio internazionale sulla vicenda. L’Armenia ha invece un’economia molto povera, con una grossa fetta della popolazione, di soli 2.700mila abitanti, in difficoltà.
Al gioco ambiguo della storica alleata Russia si è aggiunta la scarsa volontà di Erevan nel proseguire negli sforzi per fermare gli azeri, aiutando i fratelli dell’enclave. L’Armenia stessa, pur negando la sua presenza militare in Karabakh, non ha fatto molto da quando l’Azerbaijan ha bloccato nel 2022 il corridoio di Lachin mettendo in ginocchio la popolazione dell’enclave.
Per molti analisti Mosca si sarebbe allontanata dall’alleato armeno (dove detiene una base militare) per la crescente propensione di Erevan nel trovare sponde in Europea con la Francia (che nel 2022 propose sanzioni contro l’Azerbaijan) e con lo scita Iran, accusato da Baku di fomentare il secessionismo.
Proteste e rischio destabilizzazione per l’Armenia
A Yerevan, in un Armenia povera che attraversa una crisi economica e sociale, infuriano le potreste e l’ira degli irredentisti contro il governo incapace di difendere i fratelli della repubblica indipendentista, dando troppa fiducia ai russi e troppe concessioni agli azeri. Non a caso la rabbia dei nazionalisti ha preso particolarmente di mira l’ambasciata russa a Yerevan, accusata di spingere per un cambio di regime in Armenia. Il gioco internazionale dietro gli sviluppi in corso nella controversa area caucasica registra, oltre al disimpegno di Mosca, il ruolo sempre più rilevante dalla Turchia, fedelissima alleata di Baku, sullo scacchiere internazionale, che ha consentito il sacrificio della tenace piccola repubblica indipendentista, ufficialmente riconosciuta da pochissimi paesi tra i quali la Transnistria.
Odio atavico
Sul futuro della regione pesa la mano forte di un regime di Baku ipernazionalista, repressivo e violento caratterizzato da un odio atavico verso gli armeni. Un odio che viene seminato fin dalle elementari, mentre i deputati azeri ricorrono al termine cancro per definire i separatisti cristiani. Certo anche i cristiani armeni non sono stati teneri con i musulmani azeri quando hanno fondato la repubblica indipendente del Nagorno Karabakh, cacciando gli azeri, subito dopo l’implosione dell’Urss. Un enclave il cui destino sembra segnato anche per le non nascoste mire espansionistiche di Baku che non paiono volersi fermare a Stepanakert. La capitale dell’enclave dove ora la gente si nasconde nelle cantine o fugge terrorizzata per l’arrivo dei soldati azeri con il rischio di nuovi eccidi.
Migliaia di morti
La guerra che si è subito avviata tra Baku ed Erevan ha avuto un costo di vite umane pesantissimo anche per la popolazione civile, con atti di pulizia etnica da entrambe le parti. Il primo conflitto, perdurato dal 1988 al maggio 1994, ebbe un bilancio di trentamila morti, (con la cacciata degli azeri dall’enclave), mentre la ripresa delle armi del 2020 ha causato settemila vittime in sole sei settimane di feroci scontri in cui gli azeri hanno riconquistato importanti fette di territorio. Nei periodici contrasti bellici tra queste due realtà si è assistito alla presenza di volontari mujaedin afghani, ceceni e potenze internazionali.
Gli ingredienti alla base dell’atavico conflitto sono i soliti: cristiani armeni da una parte (con la loro ricca tradizione e identità) e musulmani azeri dall’altra, eredi dei costumi caucasici e iraniani. Due realtà che non sono mai andate d’accordo in questo lembo di terra, vicino allo spettacolare monte Ararat dell’arca di Noè, nel contrasto tra la ricerca di consolidare l’indipendenza, e l’unione con l’Armenia, del governo dell’enclave, e la volontà dell’Azerbaijan di imporre la sovranità su questo lembo di terra inserito nel suo territorio.
Armenia povera, Azerbaijan ricchissimo
L’Armenia è una realtà cristiana ricca di cultura e tradizioni antichissime, ma è un’economia alquanto povera, chiusa tra le montagne, a differenza del musulmano Azerbagian ricco di risorse minerarie oggi quanto mai preziose, oltre a gas e petrolio, con uno sbocco sul mar Caspio. Certamente un quadro economico che ha pesato notevolmente sugli sviluppi del conflitto.
Il corridoio di Lachin e gli inascolati appelli armeni
L’improvvisa ripresa degli attacchi azeri, con pesantissimi bombardamenti sui villaggi del Nagorno Karabakh, ha peggiorato una condizione già gravissima per il blocco, in corso da quasi un anno, dell’unica via che consente alla popolazione dell’enclave di ricevere aiuti.
Stiamo parlando del corridoio detto di Lachin, inaugurato grazie all’intervento di Mosca e da protetto dai loro circa 2000 caschi blu, che assicura un collegamento fra l’Armenia e la capitale Stepanakert del Nagorno-Karabakh. Si tratta di un tratto di cinque chilometri di autostrada, bloccato da tempo dagli azeri senza che nessuno li ostacoli. Un blocco che per gli abitanti dell’enclave significa fame e mancanza medicine, benzina, per la quale la diplomazia internazionale non è riuscita fino ad ora a trovare una soluzione. Da segnalare il ruolo assunto dai peacekeeper di Mosca in aiuto delle popolazioni colpite, anche se restano eloquenti le recenti immagini di caschi blu russi che guardano la partita di calcio, su uno schermo sistemato nel corridoio verso Stepanakert bloccato dagli azeri. Il segno di una partita più grande che vedeva quasi già scritto dell’enclave armeno a favore dell’espasionismo dell’etnocrazia di Baku.
Per gli inascoltati appelli, lanciati dalla comunità armena dall’estate 2022, quello operato dall’Azerbaijan è un atto disumano alla base di una crisi umanitaria senza precedenti. Per Baku invece questi corridoi serverebbero principalmente per fornire armamenti agli armeni presenti dell’enclave.
In realtà, come si è poi visto, il blocco è stato determinante per indebolire la resistenza degli ostinati indipendentisti, ormai isolati e allo stremo delle forze, prima di attuare il colpo finale, in un quadro di fatto di avallo internazionale. Dimostrando come solo l’ostinata tenacia degli abitanti del Nagorno Karabakh abbia fino ad ora impedito che da Erevan si concedesse l’integrità territoriale all’Azerbaijan sul loro enclave.
Ora si attendono concrete iniziative umanitarie per salvare la vita a migliaia di famiglie armene. Certo è impressionante come soldi, interessi ed equilibri internazionali possano rendere ancor oggi ciechi di fronte a immani catastrofi e regimi autoritari sempre più arroganti e senza scrupoli grazie. Insomma la vera vergogna è l’immobilismo della comunità internazionale e delle sue istituzioni preposte alla pace e al dialogo anche nel 2023 di fronte a catastrofi annunciate.