“Intransigenza è il non permettere che si adoperino – per il raggiungimento di un fine – mezzi non adeguati al fine e di natura diversa dal fine. L’intransigenza è il predicato necessario del carattere. Essa è l’unica prova che una determinata collettività esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero. Poiché l’intransigenza richiede che ogni singola parte sia coerente al tutto, che ogni momento della vita sociale sia armonicamente prestabilito, che tutto sia pensato. Vuole cioè che si abbiano dei principi generali, chiari e distinti, e che tutto ciò che si fa necessariamente dipenda da essi”.
È trascorso più di un secolo da questa riflessione che Antonio Gramsci pubblicò l’8 dicembre 1917 sul “Grido del Popolo”. Eppure il valore di quelle parole non è tramontato, anche se la loro ricchezza intellettuale di così stretta attualità rischia di deprimerci o di esaltarci, secondo le circostanze, quando si è chiamati a osservare la realtà che ci circonda.
Gramsci con la fierezza e il coraggio della sua vita spesa contro il fascismo ci induce a pensare che l’intransigenza non è un vezzo dello spirito che cresce allo stato brado, ma un elemento che va coltivato con pazienza certosina nella società, tra gli individui, per favorire il senso della libertà e dell’essere comunità. E Torino oggi ha più che mai bisogno d’intransigenza.
Le vicende opache che a ripetizione colpiscono l’amministrazione Appendino, di una candidata a sindaco che si è proposta alle elezioni del 2016 con un’immagine antisistema e di intransigenza a metodi giudicati inadeguati alla corretta gestione di una città, testimoniano l’opposto.
Due anni a Palazzo Civico e in Sala Rossa, infatti, sono diventati il florilegio di scandali piccoli, grandi e drammatici, e di comportamenti al limite della decenza anche sul piano umano con ricadute esiziali su quello professionale, politico e, in ultimo, giudiziario. E la cronaca recente pregna di particolari che vede protagonista (per l’ennesima volta) il portavoce della sindaca, consulente per due settimane (sic!) del presidente del Salone del Libro al costo di 333,3 periodico euro al giorno, è il segno tangibile che il degrado non è più dietro l’angolo, ma è diventato presente e pervasivo, come quella gelatina nera che tutto invade e inghiotte del film di fantascienza “Fluido mortale”, diventato un cult nel programma Blob. E dunque va ora combattuto, senza compromessi al ribasso, meschine contropartite politiche, aggiustamenti di quieto vivere.
Una comunità non si può permettere a lungo di essere contaminata dalla doppia morale, pena l’estinzione. Perché è doppia morale pagare i soliti noti, gli amici degli amici, a discapito di chi anonimo lavora o ha lavorato dietro le quinte per realizzare il Salone del Libro: 700 fornitori che hanno investito capitale umano e materiale. Una comunità ha il dovere di essere omeostatica nello scambio sociale e di rifiutare rigidità dogmatiche, ma non può ritardare a lungo l’individuazione di un punto di vista fermo per ritrovare il proprio equilibrio da cui poter discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.
E la politica torinese deve ritrovare un codice etico e pensieri trasparenti che la mettano al riparo da doppie verità a uso e consumo delle circostanze e, come ammoniva Gramsci, dall’intolleranza. Perché l’intolleranza è l’emanazione del potere, piccolo o grande, sempre e comunque alla ricerca del privilegio.