Appartengo a una generazione che aveva fortemente creduto in quei dividendi di pace legati alla fine di quella fredda che per decenni ha diviso il mondo in due blocchi. Un passo storico dietro il quale fu fondamentale la volontà di un grande uomo come Mikhail Sergeevich Gorbaciov. L’ultimo presidente dell’Unione Sovietica si è spento a 91 anni in una clinica Mosca, dov’era ricoverato dal 2020. Un uomo che è stato amato in Occidente ma quanto mai detestato da molti in casa propria per aver messo fine a quell’Unione Sovietica, una potenza da tempo in piena crisi.
Perestroyka, Glasnot, libertà, dialogo internazionale, umanità, furono le parole chiave della sua azione e del suo sogno politico. Principi che non trovano molto spazio nella Russia di oggi in nome della volontà primaria di ripristinare, in un contesto diversamente ideologico, quella granitica grandezza della vecchia e mitica CCCP.
Da sempre nella mummificata e geriatrica realtà dei leader sovietici Gorbaciov rappresentò un vento di novità. Questo da quando, a soli 40 anni, fece parte del Comitato centrale del Pcus. Un’ascesa rapida che nel 1985 lo fece diventare segretario generale di quell “impero del male”, come veniva definito da Donald Reagan con cui Gorbaciov aprì un importante e impensabile confronto. A partire da quello storico summit di Reykjavik che, nel 1986, portò incredibilmente vicini ad una possibile ridimensionamento degli arsenali nucleari. Il sogno di un’epoca che poi non si realizzò. Anche la lady di ferro Margaret Thatcher , primo ministro britannico ferocemente anticomunista, ebbe sempre parole di grande apprezzamento verso Gorbaciov.
Un uomo che anche per stile, capacità di dialogo, apertura mentale e simpatia era lontano mille miglia da quella fila di mummie che apparivano, in divisa militare piena di medaglie , sulla Piazza Rossa nel corso delle interminabili sfilate militari. Un approccio umano e una classe che scatenò un’immediata simpatia, attenzione ed empatia nel mondo occidentale. Ma non fu mai così in madre patria.
La sua volontà di riformare, con decisione e giusta gradualità, il sistema sovietico sia sul piano politico, in un’ottica di rappresentatività democratica delle istituzioni (mandando in pensione diversi quadri dirigenti vecchi e dormienti), sia su quello economico, per assicurare una maggiore efficienza a un modello che faceva acqua da tutte le parti, si scontrò con le forze della restaurazione e con parte della potente lobby militare sovietica. Condizioni che dicevano chiaramente che quel sistema non era riformabile.
Fu la figura chiave di una nuova visione delle relazioni con una apertura concreta alla cooperazione con l’Occidente. Un discorso che intendeva mettere fine a quell’equilibrio del terrore basato sulla reciproca minaccia degli armamenti nucleari e che puntava a rinnovare le regole anche all’interno di quel blocco dominato da Mosca.
Gorbaciov aveva intuito come quel muro di Berlino fosse destinato a sgretolarsi molto presto sotto la pressione di milioni di persone stanche di un sistema che non assicurava alcun progresso e libertà. Questo mettendo anche fine alla sanguinosa occupazione dell’Afghanistan.
Con l’arrivo di Boris Eltsin segretario del Pcus e il tentativo di golpe attuato nel 1991 dagli ambienti militari, in un disperato tentativo di restaurazione, il blocco sovietico vide il progressivo sgretolamento del suo impero, con diversi stati satelliti che dichiaravano la loro indipendenza dal Caucaso all’Ucraina.
Nel 1991, con le sue dimissioni, si spense definitivamente il sogno di Gorby di dare corso a una Russia libera in una nuova cooperazione internazionale scevra dalla minaccia nucleare. Tuttavia insieme alla inseparabile moglie Raissa rimase attivo con interventi e conferenze a livello internazionale ovviamente in occidente. Questo mentre a Mosca, e nell’ epopea putiniana, la sua figura risultò assolutamente marginale per un personaggio cui fu riconosciuto nel 1990 il premio Nobel per la pace. Un personaggio che rimane e rimarrà nell’immaginario collettivo di intere generazioni.
Il mondo ha bisogno di grandi uomini capaci di guardare avanti per una pace e uno sviluppo a misura d’uomo, che si costruisce con il dialogo, il confronto autentico e non solo rafforzando la sicurezza e gli apparati militari in sistemi con i piedi d’argilla che ignorano la volontà e il benessere dei popoli.