Non ho voluto entrare nella sterile polemica che, in questi giorni, è scoppiata a seguito dell’introduzione della legge che regola l’uso ed il costo sui sacchetti ultraleggeri per l’ortofrutta.
In un paese civile, trovato l’accordo sui fini – in questo caso diminuire il rifiuto a monte per non lasciare tutto il processo a valle – si dovrebbe sempre poter discutere dei mezzi – in questo caso la legge – perché tutto è sempre migliorabile. Non così, però, non con i toni e le modalità di questi giorni, dove abbiamo visto all’opera un giornalismo approssimativo combinato con la parte peggiore dei social network.
Sento la necessità di commentare quanto accaduto, perché da un lato le fake news riguardano un’eccellenza del nostro territorio e dall’altro corriamo il rischio di soffermarci a guardare il dito perdendo di vista la luna.
Non lo farò entrando nel merito della questione dei sacchetti, su cui già tanti commentatori autorevoli hanno spiegato come stanno le cose, ma coglierò l’occasione per dire qualcosa sull’informazione, su Novamont e su ciò che essa rappresenta.
Viviamo in un’epoca dove le persone hanno a disposizione molte più informazioni di qualsiasi altro periodo storico, ma sono spesso prive degli strumenti per interpretarle, delle cornici di riferimento. Questa situazione combinata con rabbia e frustrazione crea una miscela esplosiva che si incanala facilmente nella rete, priva di qualsiasi filtro. Così quella che potrebbe essere un’opportunità si trasforma in un “non-luogo”, dove non si comunica nulla, non ci si informa, ma ci si presta solamente a fare da cassa di risonanza a qualche stupidaggine, di solito molto superficiale, quando non dannosa. Educarci ad un uso corretto e responsabile dei social network rappresenta certamente una delle sfide più grandi che abbiamo di fronte. Il cattivo giornalismo, invece, è un male antico.
L’aspetto positivo, però, è che si stanno moltiplicando gli articoli e le posizioni, anche autorevoli, di chi, oltre a spiegare come stanno le cose davvero, coglie l’occasione per spiegare che cos’è Novamont e chi è Catia Bastioli.
Finalmente da qualche anno si parla un po’ di più e con maggiore consapevolezza di economia circolare e di bioeconomia. Dopo decenni in cui l’alternativa sembrava essere tra uno “sviluppismo” cieco e una decrescita più o meno felice, è emerso un terzo modello che per comodità potremmo sintetizzare con la massima di Gunther Pauli, inventore della Blue Economy: “Non pretendiamo di più dalla Terra. Facciamo di più con ciò che la Terra ci offre”.
Ci lamentiamo se paghiamo la tassa sui rifiuti, ci opponiamo se propongono di costruire un inceneritore o una discarica, ci indigniamo quando ci fanno vedere le immagini degli oceani pieni di plastiche o la nascita di vere e proprie isole di rifiuti. E poi? Tutta la discussione si esaurisce nel costo del sacchetto… Solo rabbia e nessun accenno al modello di economia, scenari futuri, costi/benefici complessivi.
Chi volesse approfondire la questione capirebbe molto in fretta che se oggi possiamo discutere di quanto sia corretta o meno questa legge, se sia corretto far pagare il sacchetto biodegradabile al consumatore oppure no, è solo grazie al risultato che Novamont ha reso possibile con una visione profetica diversi anni fa, quando di queste cose non parlava nessuno e lì si lavorava per ideare il Mater-bi. Oggi per noi è normale vedere posate biodegradabili, diminuire l’impatto ambientale di grandi eventi come le Olimpiadi di Londra, ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza la visione, la ricerca e la capacità imprenditoriale di Catia Bastioli e dei suoi collaboratori. Personalmente sono convinto che Novamont rappresenti in Italia il modello di impresa di cui abbiamo bisogno; un modello in cui l’interesse privato convive insieme all’interesse generale, si producono ricchezza e lavoro e non speculazione finanziaria, si realizza rigenerazione territoriale e ambientale evitando di consumare nuove risorse, si usa la scienza per migliorare il mondo e non per sfruttarlo, ci sono ottime relazioni sindacali, si testimoniano le potenzialità della bioeconomia e si realizza l’economia circolare. Se oggi, perlopiù, assistiamo, per usare le parole di Papa Francesco, a “un’economia che uccide”, questo modello di impresa racconta un’altra economia possibile e aumenta le responsabilità di chi decide di non adottarlo.
Personalmente sono contento e un po’ orgoglioso che tutto questo abbia il suo cuore a Novara e in Italia, anche se sono convinto che continuerà a diffondersi nel mondo.
Il fango presto finirà. Resterà in piedi, invece, la sfida di Novamont che dimostra che è possibile usare ancora la conoscenza e l’intelligenza per dare un futuro al pianeta e non solo per sfruttarlo.