Scritto da Battista Gardoncini
La televisione generalista è in crisi, e il suo declino è irreversibile perché il pubblico giovane preferisce informarsi attraverso la rete. Quante volte lo abbiamo letto, pensato e anche scritto?
Ma è davvero così? I nuovi media hanno davvero reso ininfluente quel che accade sul piccolo schermo? Qualche dubbio è lecito, almeno a giudicare dall’attenzione che le forze politiche dedicano alle vicende RAI perfino in questi giorni incerti, che per alcuni sono le ultime battute di una difficile trattativa, per altri le prime di una nuova campagna elettorale. Con o senza governo, infatti, i vertici della televisione pubblica sono in scadenza e sarà questo parlamento, con gli stessi rapporti di forza che hanno portato alla elezione dei vertici di camera e senato, a scegliere quelli nuovi.
La miccia è stata accesa da Di Maio, che ha affrontato l’argomento in una lunga lettera ai parlamentari del movimento, dove ammette che negli ultimi 50 giorni la RAI aveva trattato i Cinque Stelle “con i guanti bianchi perché avevano paura che andassimo al governo e sostituissimo i direttori”, ma sostiene che nelle ultime ore sarebbero partite richieste ai TG di “fare servizi contro noi”. La lettera si conclude con la minacciosa promessa che i direttori saranno in effetti cambiati “molto presto, grazie a una legge finalmente meritocratica”.
Un discorso un po’ brutale, ma se non altro chiaro e purtroppo non del tutto sbagliato. Perché nella RAI di questi ultimi anni si sono raggiunti livelli di asservimento al potere politico mai registrati in precedenza, che sono andati di pari passo con un generale scadimento della qualità dei programmi e della informazione. Il controllo dei partiti di governo sul prodotto si è spinto fino all’allontanamento di un direttore generale giudicato da Renzi – che peraltro lo aveva scelto – non sufficientemente ligio alle consegne. E i pochi che non si sono adeguati sono stati emarginati o allontanati. Massimo Giannini, chiamato a sostituire Floris alla conduzione di Ballarò, non ha certamente brillato. Ma sarebbe rimasto al suo posto se non avesse avuto l’idea giornalisticamente efficace, ma politicamente sconsigliabile, di parlare del coinvolgimento di Maria Elena Boschi nel caso della Banca Etruria. E che dire dei telegiornali, schierati in modo massiccio sulle posizioni di un governo traballante, maestri nell’esaltarne gli scarsi successi e nel nasconderne gli errori, furbescamente attenti a minimizzare le proteste e il disagio sociale che attraversava e ancora attraversa il paese?
Questa RAI è indifendibile, almeno nelle forme che hanno scelto i più rumorosi critici di Di Maio. Tal Luciano Nobili, parlamentare democratico, con sovrano sprezzo del ridicolo è riuscito a lanciare l’allarme contro la futura lottizzazione grillina, mentre Michele Anzaldi, che nella passata legislatura era il braccio armato di Renzi nell’attacco a chi non si piegava ai suoi voleri, non ha trovato di meglio che appellarsi al sindacato e all’ordine dei giornalisti per una comune battaglia di libertà contro le prossime epurazioni, dimenticandosi ovviamente di quelle vecchie.
E allora? Il critico televisivo Aldo Grasso, sul Corriere della Sera, affronta il problema proponendo una soluzione che piace a molti editori, tra cui anche il suo. “Quando si comincia a epurare – scrive- c’è sempre uno più puro che ti epura. Fuori i partiti dalla Rai? Forse la soluzione più onorevole sarebbe quella di mettere fuori la Rai dai partiti. Si chiama privatizzazione”.
Lo slogan è suggestivo, ma non è detto che sia efficace. Se è vero infatti che con la privatizzazione aumenterebbero le risorse pubblicitarie disponibili, con grandi vantaggi per chi già opera nel settore con risultati non particolarmente brillanti, è anche vero che la privatizzazione, di per sé, non è una garanzia dei qualità del prodotto. Anzi.
Guardiamo alla editoria, che è totalmente in mano privata e versa da anni in una crisi grave almeno quanto quella delle televisione generalista. La crescente disaffezione del pubblico nei confronti della carta stampata dipende in gran parte da scelte imprenditoriali sbagliate, ma non solo. La acritica accettazione del sistema, che troppo spesso diventa servilismo nei confronti del potere, è una patologia che riguarda anche i giornali.
Insomma, la strada per arrivare a programmi e telegiornali liberi e di qualità è ancora molto lunga, e non ci sono ricette facili. Nelle prossime settimane il nuovo parlamento, con o senza un governo, dovrà affrontare il problema specifico della RAI. I neodeputati e i neosenatori dovrebbero approfittarne per dimostrare di non essere seduti su quegli scranni per grazia ricevuta.