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sabato, 27 Luglio 2024

Quando Torino aveva il suo elefante

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Scritto da Gabriele Richetti

Un baratto molto particolare
Siamo nel primo trentennio dell’800 e tra due sovrani avviene uno scambio decisamente particolare: Carlo Felice di Savoia dona al viceré d’Egitto, Mohamed Alì, cento pecore di razza merinos e il sovrano egiziano lo ricompensa con Fritz, un elefante indiano di ventisette anni.

Partito da Alessandria d’Egitto nel 1826, Fritz venne fatto sbarcare a Genova per un progressivo “adattamento” al clima italiano. Infine, nell’estate del 1827, partì per Torino.

La cattività a Stupinigi
Il Direttore del Museo Zoologico universitario di Torino subito stilò con precisione le indicazioni per il suo mantenimento in buona salute: Fritz doveva essere lavato ogni mese e unto con 4 libbre di burro, oltre a ricevere quotidianamente 50 pagnotte, 24 cavoli, riso e burro in quantità, tabacco e – pare incredibile – due pinte di vino. Sicuramente non proprio la dieta più indicata per un elefante indiano.

Si decise di ospitare il pachiderma all’interno dei giardini della Palazzina di Caccia di Stupinigi, dove già erano presenti diversi animali esotici in quello che di fatto poteva essere considerato il primo zoo italiano. All’interno del cortile venne ricavato un grande spazio circolare, con tanto di vasca e scivolo per consentire a Fritz di entrare nell’acqua a suo piacimento.

Come era prevedibile, la presenza di un animale esotico a pochi minuti da Torino suscitò da subito grande curiosità: scienziati, zoologi, fotografi e semplici cittadini si affollavano nei cortili della Palazzina per studiare l’elefante e raccontare di averlo visto da vicino durante una delle sue abituali passeggiate.

Fritz era un animale docile e incline ad essere ammirato e studiato da chiunque capitasse alla Palazzina vicino al suo serraglio: risultò da subito simpatico a tutti i torinesi, felici di avere un elefante da ammirare poco distante dalla città.

Diventò celebre a tal punto da diventare il soggetto di diverse stampe e persino di un dagherrotipo, unico esempio in Italia di animale ritratto in questo modo.

L’inizio del declino
Dopo anni di fama, con la salita al trono di Vittorio Emanuele II la storia dell’elefante Fritz assunse una brusca e negativa piega.

Il pachiderma veniva nutrito sempre peggio e, come descritto sopra, spesso in modo completamente errato, tanto che gli studiosi registrarono in quegli anni diversi episodi di mal di denti e problemi digestivi del povero animale: basti pensare che una indigestione di castagne, usate come premio per le sue esibizioni, venne curata con una grande quantità di vino di Malaga.

Alle varie difficoltà se ne aggiunse purtroppo una che risultò essere decisiva per la vita dell’animale: la morte del suo storico guardiano, a cui Fritz era ovviamente molto legato fin dal suo arrivo in Italia.

Da quel momento, l’elefante non fu più lo stesso. Sempre più triste per la cattività e ingestibile (e in più mal tollerato dal nuovo sovrano, che riteneva eccessivi i costi del suo mantenimento), un giorno si rifiutò di uscire dal recinto nonostante le violenze del nuovo custode.

Il povero Fritz, spazientito, lo afferrò con la proboscide e lo scagliò per terra, uccidendolo. Fu la sua condanna a morte. Vittorio Emanuele non aspettava che un simile pretesto per disfarsi della costosa bestia. E così fu.

Dopo 25 anni, passati a Stupinigi senza una protesta, Fritz fu soppresso l’8 novembre 1852, asfissiato con l’ossido di carbonio.

Il corpo di Fritz
Neppure nella morte Fritz trovò pace: sul corpo dell’elefante furono eseguiti numerosi studi. Si decise infine di trasportarlo al Museo di Scienze Naturali di Torino, dove fu sottoposto a tassidermia ed esposto in una delle sale. Ancora oggi, Fritz è visibile nel Museo torinese, oggetto di banale curiosità così come lo era stato in vita; esposto accanto ad altri animali esotici che non erano riusciti a sopravvivere al rigido clima degli inverni torinesi, uccisi dal freddo e dall’insensibilità degli uomini dell’epoca.

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