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sabato, 27 Luglio 2024

Pd, se non è "inclusivo" è monco

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di Giorgio Merlo
Diciamoci la verità. Tra le grandi sfide che attendono il Pd dopo l’8 dicembre c’è anche la possibilità – o meno – che garantisca la sua natura “inclusiva”. Perché non sfugge a nessuno che la eventuale vittoria di Renzi alle primarie dell’Immacolata segnerà una netta discontinuità politica, organizzativa e statutaria nella vita interna al Partito democratico. Una discontinuità che è anche il frutto di una concezione profondamente diversa nella storia anche recente del Pd.
Certo, la concezione di Cuperlo è un’altra ed è in sintonia con le ultime gestioni del Pd: e cioè, un partito plurale, inclusivo che garantisce cittadinanza a tutti, singoli e gli stessi mondi culturali. Ma, al di là del destino dei singoli, è indubbio che con l’avvento di una concezione plebiscitaria della politica anche la vita del partito avrebbe delle profonde ripercussioni. Nel momento in cui il rapporto diretto tra il leader e il “popolo” di riferimento prende il sopravvento è persin ovvio dedurre che gli stessi organi intermedi andrebbero ridimensionati se non cancellati. Come lo stesso dissenso rispetto alle indicazioni e al progetto del “capo” non potrebbe manifestarsi come nel recente passato. Del resto, in tutti i partiti a sfondo plebiscitario e fortemente legato alla leadership il dissenso è più un fastidio che una ricchezza, più un inciampo che un elemento su cui far leva. Insomma, al di là delle chiacchiere e della propaganda, tutti sanno che la vittoria di Renzi alle primarie segnerebbe la conclusione di una fase della vita, seppur breve, del Partito democratico. Una fase che può essere accompagnata anche da una possibile vittoria elettorale alla prossima consultazione ma che è destinata, comunque vada a finire, a cambiare in profondità il profilo e la natura politica e culturale del Partito democratico.
E qui non mi riferisco solo alla cosiddetta “rottamazione”, cioè alla volontà deliberata di cancellare dalla vita del partito – dai ruoli istituzionali a quelli di partito – persone sgradite e non funzionali alla strategia del leader di turno. No, qui il problema è un altro e attiene direttamente alla possibilità di conservare la natura “inclusiva” del Pd, cioè garantire la sua natura plurale senza procedere ad una sorta di moderna e pubblica ed applaudita epurazione dettata da ragioni legate ad una maggior funzionalità del partito stesso. Perché di questo si tratta, al di là degli slogan, del bombardamento mediatico e del supporto di larga parte dei sempre presenti “poteri forti” che esercitano a livello editoriale, giornalistico e televisivo una influenza decisiva e determinante.
La natura “inclusiva” e plurale del Pd è la ragione di fondo che ne ha permesso la nascita. È ovvio che questa specificità, proprio questa specificità, è poco compatibile con un profilo plebiscitario del partito, dove i simboli sono giustamente imbarazzanti e limitativi. Ed è per questo motivo che il Pd ha sempre respinto con forza e convinzione la deriva personale e plebiscitaria di molti partiti italiani, tanto a destra quanto a sinistra e nella stessa area dell’antipolitica. Una deriva che negava alla radice il dibattito interno, se non adulatorio verso il capo; una deriva che individuava nel pluralismo interno una degenerazione e non una ricchezza; e, soprattutto, una deriva che riduceva fortemente la democrazia interna vissuta come una sostanziale perdita di tempo frutto di una concezione di un partito di apparato, legato al passato e da archiviare definitivamente.
Ora, non credo che un berlusconismo in salsa democratica sia la risposta giusta. Anche se la cosiddetta grande stampa incita e spinge in questa direzione. Il Pd, quindi, deve continuare ad essere fedele alla sua natura originaria. Si può esaltare e riconoscere la leadership, come giustamente ricorda Renzi, se tutto ciò non rinnega il profilo “inclusivo” del Pd. Che, detto tra di noi, significa riconoscimento del pluralismo, di tutte le esperienze culturali ed ideali e, soprattutto, di tutte le persone che hanno accettato la scommessa del Pd nel 2007.
Se, invece, la china sarà quella di esaltare a dismisura il ruolo salvifico e miracolistico del leader – come lascia intravedere l’attuale situazione – sarà inevitabile prendere atto che anche nel Pd l’influenza berlusconiana, seppur selvaggiamente rifiutata e rinnegata, di questi ultimi 20 anni ha contagiato anche il cosiddetto campo avverso. Sarebbe una triste ed amara considerazione. Non solo perché’ alcuni dovrebbero trovare altri lidi politici ma per la semplice ragione che, sull’onda della personalizzazione e della spettacolarizzazione della politica, il Pd manderebbe in soffitta un postulato essenziale della sua storia: appunto, la sua natura “inclusiva” e “plurale”.

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