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L'ultimo cantastorie

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

di Marco Bernardini
Il cantastorie non molla. Lo ha mai fatto lungo il percorso dei suoi sessantasette anni di vita, cinquanta dei quali impegnato a usare ciò che di più bello gli aveva concesso il destino: fantasia, amore per gli ultimi, una voce unica. La chitarra è il suo fucile con il quale “spara” concetto in rima e invita a riflettere. Il pubblico se lo va a cercare, due volte al giorno all’ora di pranzo e di cena, in piazza Dante a Pisa: nella “Trattoria Stelio”, dove si mangia come una volta pagando persino meno del giusto oppure al ristorante “Stefano” leale concorrente come in un film di Pupi Avati.
Tutti lo conoscono e gli vogliono bene traducendo in concreto la pulsione degli affetti. Pochi euro, naturalmente, ma sia chiaro non di “carità” semmai come autentico cachet per un artista il quale, per merito e per genialità, potrebbe aver sfondato senza tanti problemi il muro del successo pagato in oro. Perché Pino Masi, il cantastorie, nella sua vita fatta di politica “contro” e di musica “pedagogica” ha lavorato insieme e per “mostri sacri” ormai leggendari. Dario Fo, Lindsay Kemp, Pier Paolo Pasolini, Allen Ginsberg e Giorgio Albertazzi cominciando da Fabrizio De Andrè che, suo amico di matita, se ne andò quindici anni fa e al quale dedica la “chiusa” di ogni suo concerto con la “Canzone dell’amore perduto”.
Masi, vogliamo parlare un poco di Fabrizio?
«Più che volentieri. Lo conobbi nel ’66 a Sanremo dove, tutti e due, eravamo andati per assistere alle performances delle Stelle del Jazz . Io, allora oltre ad essere un leader di Potere Operaio avevo fondato il Canzoniere Pisano. Fabrizio mi avvicinò e mi disse: bello il vostro disco. Mai mi sarei aspettato che lo conoscesse. Andammo a cena. Diventammo grandi amici. Io ero il suo fratello toscano».
E a lei chiese di organizzargli il suo primo concerto pubblico, non è vero?
«Proprio così. Tutti pensano che l’esordio in mezzo alla gente di Fabrizio sia avvenuto alla “Bussola” di Focette. In realtà quella fu un’esibizione “privata” per giornalisti, amici e discografici. C’ero anch’io, insieme con Paolo Villaggio e Marco Ferreri. Ma la vera prima volta di Faber avvenne dieci giorni dopo in piazza a Pisa: due serate e diecimila persone. Un trionfo».
E anche un bel po’ di quattrini, immagino.
«Quindici milioni di lire, al netto delle spese. Una cifra! Li contammo a casa mia. Lui, Dori, la mia compagna, io e mia mamma seduto attorni a un tavolo. Dividiamo? Disse Fabrizio, ma era perplesso. Mi venne un’idea. Macchè, distribuiamoli equamente tra i circoli operai e anarchici che ci hanno aiutato ad allestire i concerti. De Andrè fu entusiasta, come tutti. Un po’ meno mia mamma, povera donna. Da quella volta la collaborazione tra me e Fabrizio continuò. Voleva solo me e dovevo stare il prima fila».
Ma non gli diede una mano per entrare nel mondo della discografia?
«Mi portò a Milano, nella sede dei Produttori Associati, all’ultimo piano del Pirellone. Davanti ad una “commissione” cantai tre canzoni che aveva scelto lui. Audizione perfetta. Poi, come un lampo, a me venne un’idea e dissi: in un ellepì ci sono più di tre brani e io vorrei anche cose come questa. Presi a cantare la mia “Compagno sembra ieri”. Mi congedarono di brutto e Fabrizio scoppiò a piangere davanti all’ascensore. Ma come, gli dissi, dovrei essere io a frignare e non tu. Mi mandò fraternamente a quel paese. Due giorni dopo ricevetti in dono la sua chitarra».
Che, immagino, lei conservi “gelosamente”.
«Lo facevo. Poi, una notte, tornando da un concerto che avevo tenuti in Sicilia in un circolo operaio uscii di strada con il mio furgoncino. La chitarra finì in pezzi. Mi rimase il manico che ho conservato per un po’. Ora l’ho buttato. Non si vive di reliquie».
Ma anche i quattrini servono.
«Guardi. Io, con la “Ballata del Pinelli” vendetti trentaseimila copie. I soldi li destinai tutti a Lotta Continua. A coloro che mi dicono essere un cantautore fallito rispondo che sono un cantastorie di successo».
Dove sta la differenza tra le due posizioni?
«Semplice. Il cantautore smette di essere cantastorie quando abbandono volutamente quello stile di vita che gli ha sempre permesso di vivere in pace con se stesso e di dormire sereno la notte. Il più grande cantastorie di ogni tempo fu, infatti, Omero: cieco, pezzente e felice».
C’è qualcuno, comunque, che non hai mai ceduto del tutto al fascino del successo fine a se stesso?
«In Italia sono in tre e due di loro se ne sono andati: De Andrè, Tenco e Guccini».
Altri hanno tradito di brutto…
«Uno su tutti e in modo clamoroso. Paolo Pietrangeli. Lui che scrisse una canzone immortale come “Contessa” è andato a lavorare per Berlusconi e per il piduista Costanzo. Se dovessi mai incontrarlo gli sputerei in faccia».
Quando si rese conto che tra lei e la star system non ci sarebbe mai stato feeling.
«La sera che, sedici anni, i miei amici per farmi uno scherzo mi portarono in un tetro di Pisa dove si tenevano le selezioni per voci nuove di Castrocaro. Presentava Mike Bongiorno il quale mi disse: tu vincerai sicuramente e io ti porterò a Sanremo. Gli risposi che il Festival era la tomba della musica italiana e scappai».
Due anni fa è uscito un bel film, “I primi della lista”, ispirato alla storia vera sua e di altri due compagni pisani con i quali lei fuggì dall’Italia per timore di un golpe fascista che non ci sarebbe stato.
«Un buon film, davvero. Peccato che in certi momenti noi si faccia la figura delle macchiette. Quella notte da Pisa non fuggimmo soltanto noi ma altre sessantaquattro persone, tra politici e intellettuali. L’ordine era arrivato da Roma. Non a caso, mesi dopo, venne a galla la questione del tentato colpo di Stato di Borghese».
Masi, un tempo il nemico era rappresentato dal padrone. Oggi in chi o che cosa possiamo identificarlo?
«Nella massoneria che è il cervello strategico e culturale della borghesia. Il mio grande amico Mauro Rostagno ebbe il coraggio di denunciare questo stato di cose e due giorni dopo venne assassinato a Trapani. Ho fatto i conti, dal 1948 a oggi in Italia sono state assassinate settecentoquarantasei persone senza processo. Uno è il povero Serantini».
Lei non è un violento, Pino.
«Odio la violenza. Ho persino smesso di bere quarant’anni fa quando scrissi che il Lotta Continua stava prevalendo la via alcoolica e stalinista per colpa di quelli del servizio d’ordine, detti anche katanghesi, che violenti erano sul serio. Il mio fucile ha sei corde e un cuore che sognerà sempre».

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