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sabato, 27 Luglio 2024

Liberato il giornalista Gabriele Del Grande

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

di Manuela Mareso*

È finalmente libero Gabriele Del Grande, il giornalista e documentarista trentacinquenne originario di Lucca, trattenuto in Turchia per 15 giorni, senza che nei suoi confronti fosse formulata alcuna accusa ufficiale.

Del Grande è atterrato pochi minuti fa all’aeroporto di Bologna con un volo della Turkish Airline, atteso da una folla di cronisti italiani e stranieri. «Sto bene, la più grande difficoltà è stata la mancanza di libertà, sono stato trattato con rispetto, ma considero illegale quello che è successo, e non ho capito perché sono stato fermato. Ringrazio le istituzioni italiane e chi in Turchia si è occupato del mio caso, ringrazio la società civile che si è mobilitata per me. Mando un pensiero a tutti i detenuti e ai giornalisti in carcere».

La liberazione è stata annunciata questa mattina dal ministro degli Esteri Angelino Alfano tramite i social network: «Gabriele Del Grande è libero. Gli ho parlato adesso e sta tornando in Italia. Ho avuto la gioia di avvisare i suoi familiari. Lo aspettiamo. Questa notte il collega ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu mi ha comunicato la decisione. Lo ringrazio”. Alfano, al fianco di Del Grande all’aeroporto di Bologna, ha definito il rilascio “la migliore vigilia della nostra Festa della Liberazione».

Sulla complicata vicenda era stata esternata grande preoccupazione dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, che aveva colto la gravità della posizione di Del Grande, sulla cui pelle rischiava di giocarsi un match dell’annosa partita Turchia-Ue, inaspritasi dopo che gli Stati membri, la scorsa estate, non avevano espresso a Erdogan la solidarietà che si aspettava dopo il fallito colpo di stato: da Ankara, infatti, capitale del Paese con il maggior numero di giornalisti incarcerati, molti con la pretestuosa accusa di spionaggio, non trapelavano comunicazioni sulle ragioni del fermo, avvenuto lo scorso 9 aprile nella regione dell’Hatay, al confine con la Siria, dove Del Grande – che si trovava nell’area per lavorare a un libro sulle origini del conflitto siriano e la nascita dell’Isis –  è stato trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione prima di essere trasferito e trattenuto in stato di isolamento in una struttura analoga presso Mugla, dove ha affrontato diversi interrogatori in merito al suo lavoro.

In queste settimane l’informazione è stata costretta a seguire il caso con estrema difficoltà, a causa delle contenute dichiarazioni istituzionali da cui si è facilmente dedotta la delicatezza del caso, confermata anche dall’enigmatico atteggiamento della parte turca, le cui prime informazioni fornite si sono in seguito dimostrate mistificanti: secondo le autorità del paese, infatti, il giornalista si sarebbe rifiutato di incontrare la rappresentanza consolare, un fatto rivelatosi del tutto infondato quando martedì 18 aprile – dopo giorni che alle autorità italiane non era stata fornita alcuna informazione sul concittadino – Del Grande ha potuto telefonare alla compagna, collega e madre dei suoi due figli, Alexandra D’Onofrio, chiedendo di avviare una mobilitazione in suo sostegno e annunciando lo sciopero della fame per il riconoscimento dei suoi diritti.

Fino ad allora Alexandra D’Onofrio, la famiglia di Del Grande e il suo avvocato, Alessandra Ballerini, avevano mantenuto – e richiesto ad amici e colleghi – un basso profilo per consentire alla Farnesina di lavorare sul caso nelle migliori condizioni ed evitare attriti diplomatici con uno Stato alleato: ma è stata proprio la telefonata del giornalista a togliere ogni dubbio sulla gravità della situazione e sul rigido atteggiamento della parte turca. Si è dunque dato il via a un’ampia mobilitazione, sul web e in oltre 40 piazze italiane, da cui ha avuto origine un riverbero mediatico su tutte le principali testate italiane, che ha coadiuvato il lavoro delle autorità italiane, un primo esito del quale era stata la possibilità di incontro – avvenuto 3 giorni dopo la telefonata di Del Grande, venerdì 21 aprile – con il console italiano a Smirne Luigi Iannuzzi e l’avvocato turco Taner Kilic, da cui si era avuta conferma che il trattenimento, per le modalità in cui era esercitato, fosse del tutto illegale.

Come sempre accade in questi casi, non sono mancati detrattori che hanno rimproverato al giornalista (non iscritto all’Ordine, ricalcano alcuni) una sprovvedutezza che si ripercuoterebbe sulle “casse” dello Stato italiano e tentato di offuscare la sua figura legandola a quella di George Soros, il miliardario con interessi geopolitici, in ragione di alcuni limitati finanziamenti che Del Grande ha ottenuto nel 2011 dalla Open Society Foundation per il blog Fortress Europe, l’osservatorio sulle migrazioni da lui fondato – e prevalentemente autofinanziato – già nel 2006 per raccogliere numeri e storie delle tragedie che si consumano nel Mediterraneo.

Per rispondere alle insinuazioni le semplici parole di Luigi Manconi sarebbero sufficienti: «Tutelando Gabriele Del Grande tuteliamo la libertà di stampa e di espressione».

La realtà è che le ragioni della grande mobilitazione per Gabriele Del Grande – al di là dell’affermazione di diritti che si vogliono sancire inviolabili, come quello di cronaca, di opinione, di espressione e della solidarietà per un concittadino illegalmente trattenuto – vanno oltre ciò che lui fa e stanno in ciò che lui è, stanno nel riconoscimento della sua eccezionale umanità: Del Grande è conosciuto dai moltissimi che si sono mobilitati per la sua liberazione non solo come professionista coraggioso intento a dare voce agli ultimi, ma come persona capace di spendersi concretamente, offrendo a chiunque lo interpelli tutto l’aiuto di cui è capace.

Devo a lui la gratitudine di una donna di origine nigeriana che aveva perso le tracce del figlio, che da Lagos stava tentando clandestinamente di arrivare in Italia, dopo anni che non vedeva la madre. Il ragazzo aveva dato le sue ultime notizie arrivato in Libia, dopo settimane di viaggio. Era il 2011 e i disordini del paese rendevano tragica la situazione per i subsahariani, ritenuti generalmente dei mercenari al soldo di Gheddafi ed eliminati a vista dai miliziani ribelli in una caccia a nero foriera delle peggiori atrocità. Disperata perché nella onlus presso cui lavorava come addetta alle pulizie nessuno si interessava al suo caso, si rivolse a me, ed io a Gabriele, con cui ero da tempo in contatto perché gli avevo affidato una rubrica per il mensile che all’epoca dirigevo. Le sue indicazioni funzionarono, e se quel ragazzo è riuscito a salvarsi, lo si deve a lui.

*giornalista, già direttore di Narcomafie, autrice di “Loro mi cercano ancora” (Mondadori, Strade Blu)

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