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mercoledì, 23 Ottobre 2024

L’antifascismo non è merce di scambio

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

L’antifascismo nel nostro Paese è un valore acquisito. E la Costituzione è la magna carta che garantisce la saldatura dei pannelli storici che dalla dittatura del Ventennio alla guerra d’aggressione nel 1940 vedono poi il popolo (parola desueta, sostituita da quella meno impegnativa di gente) riscattarsi nella Resistenza. Considerare l’antifascismo come patrimonio del nostro Dna storico e politico non è improprio. Dunque non è un valore da recuperare, perché esiste non solo sulla carta e non è mai stato smarrito. Ma gli avvenimenti e le dure prese di posizione delle ultime settimane di più esponenti del Pd al vertice e in periferia, e di altri partiti e gruppi di sinistra sembrano suggerire il contrario.
E l’accanimento tutto prepolitico con cui si è arrivati di recente a rifiutare la partecipazione a dibattiti e a confronti con CasaPound lo conferma. Il che permea di un senso di disagio il ricordo di una sinistra orgogliosa nel rivendicare, superata la fase acuta dall’anticomunismo viscerale e della guerra fredda, il senso della Resistenza, di una stagione in cui il sacrificio personale era stato messo al servizio di tutti, per dare a tutti – anche a chi vi si opponeva – libertà di pensiero e di parola. Principi che divennero l’anticorpo migliore contro i tentativi di messa sotto tutela della democrazia a cavallo tra gli anni Sessanta e Ottanta, dalla strategia della tensione nell’autunno caldo fino al 1974, alla drammatica stagione del terrorismo nero e rosso. Una determinazione attraverso cui i partiti di sinistra e una parte della Democrazia cristiana si attribuivano legittimamente una superiorità anche intellettuale verso chi negava la libertà e inneggiava al totalitarismo.
Non a caso, quando in quegli stessi anni il concetto di Resistenza come punto alto dell’unità nazionale viene usato come elemento divisorio da parte dei gruppi della sinistra extraparlamentare cominciano gli slogan funerei che progressivamente porteranno a maneggiare in piazza le P38 e con esse la giustificazione dell’omicidio dei fascisti in un Paese democratico. Si obietterà: cominciarono i “neri”.
Ma i rigurgiti di totalitarismo e di sussulti illiberali si ramificano in qualunque società democratica, ma proprio perché tali sono destinati a cadere nel vuoto dinanzi alla saldezza comportamentale di una comunità che ha al centro valori morali e etici non negoziabili, come è di moda dire oggi. Ciò porta ad interrogarsi se i continui richiami alla Resistenza non siano schiacciati su ragioni irreali, costruiti astrattamente per riscuotere una storica rendita di posizione, quasi a compensare il mantra del centro destra che invoca la linea dura contro gli sbarchi e i migranti. Parole d’ordine, appunto, da cui scompare sempre la politica, la vera migrante del nostro Paese.
A questo punto, il rischio sempre maggiore per il Pd e la sinistra è di assomigliare ai loro avversari che godono del vantaggio (in progressiva erosione) di muoversi in una Italia disastrata anche sul piano culturale oltre che economico. Ed è per questo motivo che l’antifascismo, valore acquisito, ma da nutrire con la politica, non è destinato ad essere mercato di voti, perché non è merce di scambio. Un po’ come mettere sul fornello un bollitore pieno d’acqua senza avere la bustina del tè, accontentandosi di sentire il fischio…

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