La Ferrero – il colosso dolciario di Alba – inaugura a New York, nel corrente mese di settembre, un proprio centro di ricerca per sviluppare studi e tecnologie d’avanguardia riguardanti i suoi prodotti e le sue attività. Valore complessivo del progetto: 2 miliardi di dollari. Il centro è collocato nel complesso Bridge dell’Università Cornell (il complesso trae il nome dalla vicinanza al ponte che unisce Manhattan al Queens). Lì lavorano le eccellenze del mondo accademico statunitense e si approfondiscono le interazioni tra ricerca tecnologica e produzione delle aziende. La Ferrero assumerà laureati della Cornell. Nel corso della sua esistenza, l’Università Cornell ha già avuto quaranta premi Nobel. Fatta eccezione del quotidiano La Stampa (31.08.2017), i mezzi d’informazione hanno ignorato, quasi totalmente, la notizia.
Al silenzio dei mezzi d’informazione sul fatto, s’è aggiunto quello delle istituzioni pubbliche, nazionali e piemontesi. Evidentemente, si ritiene che l’avvenimento sia privo d’interesse e che i commenti − sempre abbondanti e tempestivi da parte loro − vadano riservati ad altre notizie per quanto banali e futili.
A livello nazionale, la politica strombazza il proprio progetto “Industria 4.0” (i cui contenuti − tra l’altro − sono in parte simili a quelli che la Ferrero realizzerà a New York). Il mondo ministeriale e quello accademico hanno ritenuto, evidentemente, così irrilevante l’iniziativa del gigante dolciario italiano da non dedicargli nemmeno una parola. A livello piemontese, nessuna istituzione politica o accademica si è avventurata nel rilasciare dichiarazioni sull’avvenimento. Eppure almeno qui si sarebbe dovuto dire qualcosa, quanto meno per l’appartenenza al territorio della Ferrero.
Va da sé che non si può che essere lieti delle affermazioni piemontesi nel mondo. Al tempo stesso, non si sottovaluta il valore del progetto governativo “Industria 4.0” − benché lo stesso Governo nutra il timore che esso vada più a favore della grande industria che non delle piccole e medie imprese, forse ancora lontane dalle possibilità di digitalizzazione totale delle loro produzioni (nelle classifiche internazionali sulle potenzialità della digitalizzazione dell’industria, l’Italia è ancora in posizioni basse). Neppure si ignora che anche l’Università italiana eccelle in diversi settori.
Tutto ciò tuttavia non esclude che il cittadino, in presenza di processi che sono avvenuti ed avvengono nel mondo delle imprese come quello dal quale siamo partiti, non si possa fare delle domande sui comportamenti dei poteri pubblici.
Come noto, l’imprenditore colloca la sede delle proprie attività e dei propri interessi dove ritiene che gli sia più conveniente. Può quindi scegliere il proprio Paese (specie se vi è nato) od anche andare all’estero. Quando lascia il proprio Paese e va all’estero e, in special modo, quando vi colloca capitali ragguardevoli – che, quindi, vengono sottratti all’economia del Paese −, politica e istituzioni pubbliche dovrebbero chiedersi perché l’imprenditore fa questa scelta. Poi valutarne tutte le conseguenze economiche (in termini di mancati investimenti, ricadute negative sull’occupazione, minori entrate per tasse, ecc.). E, fatte tutte le necessarie valutazioni, attivarsi per convincere l’imprenditore o ad annullare la scelta di lasciare il Paese o, quanto meno, a limitarne gli effetti.
Non dedicare attenzione a fatti quali quello dell’investimento della Ferrero negli Stati Uniti (ma ciò vale per tante altre fughe di industrie italiane dall’Italia, Fiat − ora FCA − in testa) può significare avere nulla da offrire in cambio affinché la fuga non avvenga. In ogni caso, non degnarli nemmeno di un commento, dà l’impressione che di essi ci si infischia. Forse sono valide entrambe le ipotesi.