La campale battaglia della siriana Kobane è entrata oramai nel vivo. Se le notizie delle scorsa settimana annunciavano un avvicinamento dei miliziani dell’Isis sulla strada della città curda, situata al confine fra la Siria e la Turchia, gli ultimi dispacci di agenzia segnalano le progressive conquiste degli islamisti. Sarebbero tre i quartieri di Kobane sui quali sventolerebbe la bandiera nera dell’Isis. I media internazionali stanno utilizzando strumentalmente questo capitolo della guerra per agitare il fantasma del terrorismo arrivato pressoché in Occidente, mentre i governi impegnati nella coalizione capitanata da Barack Obama proseguono nel fare “orecchie da mercante” su uno snodo armato terribilmente politico, quindi scivoloso per molti dei soggetti impegnati nel conflitto in Iraq e Siria. La questione curda, da più di un secolo, rimane viva e si rincorre, nella repressione dei governi (Turchia, Iraq, etc) quanto nell’irriducibilità dei curdi.
I miliziani fedeli ad Abu Bakr al-Baghdadi hanno preso la periferia della città siriana, situata a poche centinaia di metri dal paese di Recep Tayyip Erdogan, il quale continua a mantenere un profilo opportunista nella vicenda della guerra, nella nemicità verso Bashar Assad così come nella paura dei curdi, dicendosi parzialmente e probabilmente non tanto credibilmente disposto a combattere le truppe dell’Isis. La decisione del Parlamento turco di dispiegare le sue truppe al confine con la Siria sembrava potesse essere il trampolino di un impegno reale della Turchia nella guerra contro l’Isis ma, all’oggi, a conti fatti, non sembra che la realtà delle cose descriva ciò. Un attendismo vincolato, sembra, al defenestramento di Assad in Siria, ma anche comandato dall’indisponibilità di accogliere i profughi curdi in fuga dalla guerra. Sono 160mila le persone sospese fra il confine turco-siriano, profughi che nessuno vuole: l’Isis li rincorre per ucciderli e la Turchia li respinge per governarli.
Il conflitto contro l’Isis si sta giocando su un piano disordinato e insufficiente, in un gioco di contraddizione e morte che è difficile ordinare nella sua progressione. I curdi, quando la minaccia dell’Isis si avvicinava a Kobane, chiedevano alla coalizione internazionale di intervenire, di bombardare le milizie di Abu Bakr al-Baghdadi, ma hanno ricevuto risposte totalmente parziali e incomplete (quest’estate, ad esempio, i governi d’Occidente hanno promesso armi per i curdi che non sono mai arrivate). Ogni decisione è stata rinviata, oggi Kobane è sotto l’assedio dell’Isis. I curdi, anche nella loro solitudine, politica e armata, non hanno abbandonato la città, combattendo e resistendo alla molto più ben equipaggiata frotta islamista.
Anche il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, è intervenuto sulla battaglia di Kobane, lanciando un ultimatum ad Ankara, minacciando la fine del processo di pace tra il Pkk e il governo turco se l’Isis riuscirà a conquistare Kobane. Ora come ora l’impasse della coalizione contro l’Isis e la complessiva disorganizzazione politica sul da farsi stanno compiendo un altro favore all’Isis che, anche nel caso della città curda di Kobane, si sta cibando degli errori occidentali. Nel frattempo a ottocento metri dal confine turco, dalla frontiera Nato, il vento agita il vessillo dell’Isis, dall’alto dei palazzi della periferia di Kobane, suggerendo, più che l’onta del pericolo islamista nelle patinate metropoli nostrane, di riflettere a fondo sul mostruoso boomerang della guerra.