Quando a notte fonda, dopo una camera di consiglio fiume, i giudici della VI sezione penale della Cassazione hanno deciso di assolvere Silvio Berlusconi dai reati di concussione e prostituzione minorile confermando in toto la sentenza d’Appello, tutto si poteva prevedere tranne lo stupore e la meraviglia di chi si aspettava un verdetto diverso.
Bastava mettere in fila i fatti, che tutti insieme potevano portare a un solo epilogo: assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
Lo spartiacque si chiama legge Severino, che ha spacchettato il reato di concussione in due fattispecie diverse: la concussione per costrizione e l’induzione indebita a dare o promettere utilità. Il primo reato, più grave, punisce con pene fino a dodici anni il pubblico ufficiale che, «abusando della sua qualità o dei suoi poteri costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità». Elemento essenziale a configurare questa ipotesi è infatti la costrizione, che la Cassazione descrive come l’«annientamento della libertà di autodeterminazione» della vittima.
Altro è l’induzione indebita, fattispecie più blanda (anche nelle pene), che punisce fino a otto anni «il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità». Senonchè, il comma secondo punisce fino a tre anni «chi dà o promette denaro o altra utilità», prevedendo quindi un vantaggio personale per quella che prima della riforma era considerata la vittima del reato. Il risultato è una depenalizzazione di fatto del reato di induzione: se non viene dimostrato l’indebito vantaggio del soggetto compiacente, automaticamente il pubblico ufficiale che ha abusato del suo potere, seppur senza minacce né violenza, non può essere ritenuto responsabile per quell’abuso.
Per dirla con il cardinale Mazzarino (o più recentemente con Giulio Andreotti), a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca. Pare quasi di vederlo, Silvio Berlusconi che in qualità di Presidente del Consiglio chiama quattro volte la Questura di Milano per far liberare la minorenne Ruby, fermata per furto. Anziché essere affidata a una comunità, questa viene prelevata dalla consigliera regionale Nicole Minetti, che la riporta tempo zero a casa dell’amica prostituta Michelle Conceiçao, con buona pace delle norme sul trattamento dei minori.
Ecco perché la decisione di ieri non dovrebbe sorprendere. D’altronde sarebbe bastato dare un’occhiata alla sentenza con cui nel novembre 2013 la Cassazione, nel decidere di un ricorso del dirigente di un Asl romana imputato per concussione, ha ulteriormente circoscritto le due fattispecie per leggere tra le righe un verdetto sicuramente favorevole all’ex premier. In quel caso la suprema corte scriveva che «la fattispecie di induzione indebita di cui all’art. 319 quater c.p. è caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un suo indebito vantaggio».
Nella vicenda Ruby, quale sarebbe il vantaggio indebito di chi materialmente ha autorizzato il rilascio della 17enne, ossia il capo di gabinetto della Questura Pietro Ostuni? Ieri Franco Coppi, legale dell’ex premier, ha detto che tuttalpiù i funzionari della Questura potevano essere «contenti di aver fatto un favore a Berlusconi». Siccome però vale sempre il principio del favor rei per cui la norma penale più favorevole all’imputato è quella che va applicata, Berlusconi ha attinto a piene mani a una norma cambiata in corsa da una maggioranza di cui egli stesso faceva parte insieme ad alcuni dei suoi avvocati.
A questo punto verrebbe da chiedersi come sarebbe andata se la legge fosse rimasta uguale. Resta il fatto che, con queste premesse, era già tutto scritto.