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sabato, 27 Luglio 2024

Destino cinico e baro

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di Giusi La Ganga

«Destino cinico e baro». Così uno dei più importanti leader socialisti italiani del ‘900, Giuseppe Saragat, poi Presidente della Repubblica (1964-1971), definì una drammatica sconfitta del suo partito, che dimezzò i propri voti nelle elezioni politiche del 1953.

Una decina di anni dopo, quando mi affacciavo alla politica, quell’espressione era ancora ricordata come un grave errore, giacché attribuiva responsabilità al destino anziché alle azioni compiute. Dello stesso genere autoassolutorio sono le parole, frequenti anche nei commenti di oggi, “gli elettori non ci hanno capito”, o peggio “gli elettori non sono all’altezza”, “forse il suffragio universale è il peggior nemico della democrazia”.

Gli elettori hanno sempre ragione, perché in loro risiede la sovranità, che un tempo era del monarca. Sta a chi liberamente compete per conquistare il consenso il compito di convincere quale sia il bene comune.

Se non ci si riesce, vuol dire che ciò che proponi agli elettori è sbagliato, o è mal spiegato. O la strategia è avventurosa. Il che è sempre la stessa cosa.

Matteo Renzi, a differenza di molti suoi supporter (che gli sono stati più dannosi che utili), ha per fortuna scelto di prendere su di sé tutte le responsabilità, subito, con un discorso sobrio e dignitoso. Spero che lo faccia anche nella Direzione PD, avviando un congresso indispensabile.

Eppure devo rilevare che, forse per l’amarezza dell’ora, è incorso nella reiterazione di un atteggiamento rovinoso per il PD, per il centrosinistra (sempre che ancora lo si voglia tener vivo) e per l’Italia. Dire: “Hanno vinto loro; facciano” è una sciocchezza. Il PD ha 400 parlamentari e non può chiamarsi fuori e stare a vedere. Dovrà farsi carico di questo passaggio, riprendendo il dialogo con chi è disponibile. Lo impone l’interesse della Repubblica.

Questa premessa serve a spiegare cosa penso del voto referendario.

Tralascio di riparlare del merito della riforma, non decisivo nell’orientare gli elettori, se non per osservare che le critiche di molti settori di sicura cultura democratica non sono state minimamente considerate, accentuando un isolamento, che, come si è visto, ha pesato.

Isolamento, ho detto e ripeto. Da soli contro tutti non è mai una bella strategia, anche quando hai ragioni incontrovertibili. E non era questo il caso. Questo errore, tra l’altro, ha fatto passare in secondo piano l’azione complessiva del governo, che su molte questioni aveva fatto bene.

Le riforme costituzionali non sono normale attività legislativa. Calamandrei diceva che quando si parla di Costituzione i banchi del Governo in Parlamento devono rimanere vuoti. Che è esattamente il contrario di quanto accaduto.

Venendo meno, fra l’altro, all’impegno solenne assunto all’atto della fondazione del Partito Democratico che nella sua carta dei valori affermava: “Il PD si impegna … a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza…”.

Ma il voto è stato soprattutto un voto politico. Per chi non se ne fosse accorto, è stata l’anticipazione di un possibile ballottaggio, sul modello dell’Italicum. E ha confermato quanto accaduto alle comunali e quanto rilevato da tutti i sondaggi.

Il nuovo governo deve essere politico, guidato da una personalità autorevole, che metta ordine nei rapporti con l’Europa e aiuti la ricomposizione del centrosinistra in vista di elezioni, che non sono così imminenti. Salvo che non prevalga di nuovo l’attitudine del giocatore di poker, che, persa tutta la posta, chiede un prestito per fare un nuovo “all-in”.

Non è questo l’interesse dell’Italia.

 

 

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