di Enrico Peyretti
Un aspetto (anche autocritico) dei commenti su Benigni: chi nulla spera nulla crede; chi ha una speranza crede più facilmente di vederla arrivare, anche quando tarda. “Eccolo qui, eccolo là”. Gesù mise in guardia. Arriva papa Giovanni, il Concilio, Francesco: “È fatta! la chiesa è pura! il vangelo si diffonde!”.
Con Benigni – salve le proporzioni – non è successo un po’ lo stesso? Senza nulla togliere al valore teatrale e contenutistico del suo spettacolo, e al bisogno umano di cose sane, bisogna chiedersi anche questo. Abbiamo bisogno di segni, di toccare con mano, di vedere. Non si tratta affatto di gelare la fiammella della speranza! Si tratta di sapere di nuovo che la speranza ha occhi per vedere, sa riconoscere i segni autentici, ma, per essere autentica, conosce anche l’attesa, la pazienza, il cammino nel deserto. E ringrazia quando viene una luce.
Constato che i commenti più entusiasti su Benigni sono quelli dei cristiani, di ogni confessione. Un motivo legittimo: “La Bibbia è una parola degna di spazio nella cultura civile. Questo artista dice a modo suo (più efficace!) quello che cerchiamo di dire noi”. Far tesoro dell’evento, e ricordare che la sorte che il mondo riserva all’evangelo è la persecuzione e l’insignificanza. La croce di Cristo non è dolorismo e sacrificismo, ma il “passaggio” necessario (non necessario per volontà divina, ma per l’opposizione del mondo).
E tuttavia, sotto la croce, il centurione (chi più “mondo” di lui?) riconosce la presenza di una vita nuova.