I risultati che arrivano dall’Emilia Romagna e dalla Calabria non possono essere banalmente sottovalutati. Nei noiosissimi talk televisivi sono già oggetto di tesi contrapposte e persino alternative. Le due tifoserie sono in campo. Da un lato coloro che badano esclusivamente al “risultato finale” e, dall’altro, quelli che si dicono fortemente preoccupati per il massiccio e violento calo dell’elettorato. In mezzo, a fare da arbitro pilatesco, i vari conduttori milionari che se la cavano attraverso lo storico metodo cerchiobottista.
Ora, è indubbio che dal voto di domenica emerge in tutta la sua evidenza una “questione democratica”. Ovvero, quando i cittadini disertano in massa le urne lanciano un messaggio preciso: e cioè, non si fidano più delle istituzioni e, al contempo, detestano la politica e chi la fa in prima linea, i partiti e i politici. Non cogliere questo dato significa aggirare l’ostacolo e occultare la verità.
Del resto, la crescita esponenziale dell’astensionismo – addirittura oltre il 60 per cento dell’elettorato non si è recato alle urne in Emilia Romagna e il 55 per cento in Calabria – sono la cifra di una disillusione e di una indifferenza che certifica una reale crisi della nostra democrazia e una progressiva distanza dalle stesse istituzioni. A cominciare proprio da quelle locali. È indubbio che anche all’interno di questo contesto, amaro e preoccupante, ci sono i “vincitori” e i “perdenti”. Ma è altrettanto indubbio che il neo Presidente dell’Emilia ha avuto il consenso, a conti fatti, di appena il 18 per cento dell’elettorato attivo dell’intera regione. Un dato che si commenta da solo senza ulteriori approfondimenti.
Ma, al d là dei numeri crudi, credo sia importante e necessario soffermarsi attorno alla caduta verticale della partecipazione elettorale. Alcuni dicono che questo è del tutto naturale. E cioè, finalmente ci stiamo “americanizzando” e assomigliamo sempre di più alle democrazie del Nord Europa. Ora, senza tracciare questi inutili e astratti parallelismi, è pur vero che in democrazia vince chi partecipa. Al di là delle percentuali.
Ma l’abbandono delle urne da parte di un numero crescente di cittadini non può essere salutato come un fatto secondario o del tutto indifferente ai fini del rafforzamento della nostra democrazia o del consolidamento e credibilità delle nostre istituzioni democratiche. Perché un dato è certo. Lo “sciopero elettorale”, e quindi il rifiuto pregiudiziale dell’istituto principe della nostra democrazia, può avere effetti imprevedibili e inquietanti. Da tempo conosciamo il diffuso disagio sociale e la crescente tensione che attraversano il nostro paese – causate dal record della disoccupazione giovanile, dalla caduta dei consumi, dalla perdurante crisi della produzione industriale e accompagnati, purtroppo, da una crescente tassazione, da una riduzione dei servizi e da un aumento vertiginoso del costo della vita – e le conseguenze concrete che un clima del genere possono generare. Di fronte ad un quadro siffatto, il rifiuto del voto diventa un gesto quasi comprensibile… Ma dietro quel rifiuto, al di là di chi vince o di chi perde le elezioni, si nasconde un pericolo subdolo: e cioè, la messa in discussione del nostro sistema democratico e partecipativo.
Ecco perché ogni segnale di disaffezione democratica, soprattutto quando è accompagnata da una profonda crisi sociale, può generare effetti imprevedibili per la stessa tenuta democratica. E gli attori principali della politica, cioè i partiti – tutti i partiti – non possono sottovalutare i rischi impliciti che possono minare alla radice la nostra democrazia. In particolare i partiti e i movimenti che fanno della partecipazione, dell’attaccamento alle istituzioni e del voto dei cittadini i cardini insostituibili e centrali della loro concezione politica. E voltare le spalle di fronte al risultato delle elezioni regionali emiliane e calabresi sarebbe non solo grave ma addirittura pericoloso per il futuro e per la stessa “qualità” della nostra democrazia.