Il dibattito che si è scatenato nel Pd attorno all’articolo 18 e alla intera riforma del mercato del lavoro può avere esiti politici imprevedibili. È appena sufficiente scorrere i vari giornali per rendersi conto che tra ipotesi di “scissione”, aumento dei “convertiti” della sinistra interna al renzismo, divaricazione profonda tra le varie sensibilità culturali presenti nel Pd, la confusione rischia di dilagare. Il tutto avviene, però, nel sostanziale silenzio delle altre forze politiche.
E questa è la vera novità del momento. La destra, quasi tutta la destra, condivide nella sostanza il progetto avanzato dalla stragrande maggioranza del Pd. Addirittura il leader indiscusso del centro destra, Silvio Berlusconi, invita il Pd a “cacciare definitivamente i comunisti”, obiettivo che lui ammette di non essere riuscito a centrare. Il Ncd non fa testo essendo solo legato alle poltrone e avendo come unico obiettivo quello di non andare alle elezioni. Il movimento di Grillo sbanda paurosamente sul terreno della progettualità politica e, normalmente, si ferma di fronte al merito delle varie questioni.
Nel caso specifico, sul giudizio della riforma del mercato del lavoro avanzato dal segretario del Pd e premier Matteo Renzi.
Pertanto, tutto il dibattito politico è riconducibile al Pd, alle sue divisioni, alla sua vivacità e al suo dinamismo. Gli altri osservano, commentano, parteggiano, tifano ma sono sempre e solo spettatori. Certo, il panorama politico è cambiato profondamente rispetto ad un passato anche recente. Per lunghi 20 anni siamo stati abituati ad un maldestro bipolarismo dove si confrontavano, a volte in modo confuso e contraddittorio, il centro destra e il centro sinistra. Il tutto inzuppato di un violento e pregiudiziale antiberlusconismo. Una sorta di derby permanente dove l’obiettivo da un lato era quello di colpire i “comunisti” e la “sinistra”. Obiettivo prevalentemente immaginario ma efficace e redditizio a livello politico e, soprattutto, elettorale. Dall’altra tutta la corazzata politica, culturale, editoriale, televisiva, giudiziaria e salottiera era focalizzata ad eliminare il “caimano”. Il tutto è durato per lunghi 20 anni, appunto.
Con l’avvento alla segreteria nazionale del Pd di Renzi e, soprattutto, con il suo avvento a Palazzo Chigi tutto ciò è scomparso. L’ultimo tentacolo di questo derby fu la “ribellione” della base del Pd contro la candidatura di un padre fondatore del Pd stesso alla Presidenza della Repubblica, Franco Marini. Il motivo di questa ribellione? Semplice.
Si sussurrava di un accordo con il centro destra, cioè con Berlusconi. Che, detto tra di noi, è un fatto del tutto naturale quando si tratta di eleggere il Presidente della Repubblica. Ma quello fu l’ultimo sussulto – ovviamente strumentale – dell’antiberlusconismo politico, culturale ed ideologico. Dopodiché è cambiato radicalmente lo scenario politico.
Ma, per tornare all’art.18 e alla riforma del mercato del lavoro, è solo il Pd che deve decidere. Con quanti voti, con quale strategia parlamentare e con quali linee programmatiche. Il centro destra, che lo voti o che non lo voti, condivide la strategia complessiva e quindi non entra in partita se non per le sfumature. E cioè, incitare il premier a chiudere al più presto la partita con la sinistra interna al Pd o chiedere di rafforzare l’approccio liberista della riforma dell’intero settore. Insomma, commenta, analizza e tifa. Ma non entra in partita.
Ora, di fronte a questo scenario, per alcuni versi singolare e del tutto imprevedibile sino a qualche mese fa, c’è una sola domanda a cui prima o poi si dovrà dare una risposta politica credibile, seria e lungimirante: e cioè, quale sarà il bipolarismo del futuro? Come sarà il futuro partito di centro sinistra? Nascerà un partito della sinistra democratica che sia realmente, e lealmente, alternativo alla destra senza riproporre il caravanserraglio dell’antiberlusconismo militante? Resterà tutto unito il Pd, al netto della convenienza dei parlamentari di approvare il tutto e il contrario di tutto pur di non andare alle elezioni anticipate?
Sono domande legittime a cui tutti, prima o poi, siamo chiamati a dare una risposta. Perché una cosa sola è certa: la fase politica che stiamo vivendo è profondamente cambiata rispetto a quella degli ultimi 20 anni. E la discussione sull’art.18 è stata, comunque vada a finire, una ghiotta occasione per aprire definitivamente questo dibattito politico e dirci anche alcune verità che sino a qualche mese fa era tabù affrontare.