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sabato, 27 Luglio 2024

“Un Paese non può vivere senza politica”. Incontro con Bruno Pittatore

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Rosanna Caraci
Rosanna Caraci
Giornalista. Si affaccia alla professione nel ’90 nell’emittenza locale e ci resta per quasi vent’anni, segue la cronaca e la politica che presto diventa la sua passione. Prima collaboratrice del deputato Raffaele Costa, poi dell’on. Umberto D’Ottavio. Scrive romanzi, uno dei quali “La Fame di Bianca Neve”.

Un libro intervista “Cercavo domani. Dalle Langhe alla Torino industriale” pubblicato con Impremix edizioni Visual Grafika curato dallo storico Enrico Galimberti e con la prefazione di Stefano Tallia presenta al pubblico la storia di Bruno Pittatore, classe 1928, partigiano, militante, prima operaio poi imprenditore, lucido osservatore delle cose politiche e umane del nostro quotidiano. 

Un uomo sempre in azione, spinto dall’ascolto di Radio Londra negli anni della guerra.
Mio papà andava tutte le sere ad ascoltarla, da un contadino che aveva una radio. Lo accompagnavo spesso. Mio padre mi raccontava dell’Armata Rossa e dei suoi successi, e questo mi entusiasmava, perché mi dicevo che se questi avessero vinto la guerra, il bene avrebbe vinto sul male. E mi dicevo che volevo stare da quella parte, dalla parte giusta.

Cosa racconta “Cercavo domani”?
Nel libro racconto la storia di un ideale, che nasce negli anni ’30 ed è ancora attuale. A novant’anni, un libro è spiegato dal fatto che non ho né memorie, né taccuini ma era forte la necessità di andare oltre l’amarcord e il racconto di come eravamo, perché molti dei valori di ieri sono quelli di oggi, ancora attuali e vivi.

Lei è nato nel 1928. Oggi a 92 anni come si ricorda da ragazzo?
Ho girato il mondo, ero segretario della Federazione giovanile comunista torinese, e poi sono stato componente della direzione del Partito comunista a Roma per tre anni. Ho viaggiato molto tra l’Italia e quello che era l’Impero dell’Unione Sovietica; sono stato in Giappone, in Argentina, in Vietnam dopo il ’75. Erano viaggi importanti, che contribuivano a far circolare le idee nuove del partito. 

Com’erano i suoi rapporti all’interno del Pci?
Ero un portatore di trasformazione, ma all’interno del partito ho trovato anche difficoltà, perché molti mi associavano un po’ a quello che era stato il primo trasformista d’Italia che era Giuliano Ferrara. E invece non era così.

Cercavo domani. Un domani che non sembra mai a portata di mano.
Ho imparato a vivere, oggi direbbero in modo laico, ma era un mio modo molto personale di vedere il partito, un modo nuovo, che forse anche Berlinguer voleva; non abbiamo la controprova di quale fosse il suo obiettivo perché la trasformazione del Pci è avvenuta nell’89. Berlinguer è morto nell”84. Sono stato alla direzione e sono oggi il solo sopravvissuto del gruppo berlingueriano. 

Una vita trascorsa in simbiosi con la passione politica, la militanza, un’idea di partito, come lei stesso ha sottolineato, di rinnovamento.
Sono riuscito a far vivere il partito anche all’interno della mia categoria, sono stato uno dei più giovani licenziati Fiat d’Italia nel 1952. Avevo 24 anni, per cui ho sempre portato il Pci nella mia vita. 

Parliamo dei giovani? 
Allora i giovani volevano vivere cantando, sorridendo, ballando, lavorando. E allora la chiamavano la federazione giovanile dei biliardini, allora eravamo 16mila giovai iscritti. Quella piemontese ne aveva 36mila, dai 14 ai 18 anni. I giovani hanno un minimo comune denominatore, quelli di ieri e quelli di oggi che è fare soldi, e farli in fretta. 

Che non è così semplice: né fare soldi, meno ancora farli in fretta.
Ciò che si capisce solo dopo è che c’è da scalare una montagna, e i giovani non tengono conto che sarà possibile soltanto se si superano le pareti, che spesso impervie. Solo dopo si arriverà in vetta. Alle difficoltà di ieri, oggi se ne sommano altre ma i giovani, non cambiano. Oggi, come allora, vogliono vivere bene, lavorare, ballare, cantare, ascoltare musica. Vincere le difficoltà. Non gli si può dar torto.

Sono molti quelli che partono, che se ne vanno in cerca di Paesi che offra migliori opportunità. Oggi come allora. Lei è stato sul punto di andare in America, da bambino, durante la guerra.
Due cugini avevano una lavanderia a San Francisco e non avevano figli, così pensarono di portarmi via con loro. A mio padre l’idea non sembrò dispiacere, perché qui si prevedevano ancora molti anni di guerra e di fame, ma poi non se ne fece nulla. In fondo a lui, l’America non piaceva. Gli americani erano tutti ignoranti, senza politica. Ma senza politica come fa a vivere un paese, la sua gente?

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