di Andrea Zummo
Nell’America del primo Ottocento avventurieri e soldati si contendono con i nativi americani la caccia del bestiame, con il relativo commercio delle pelli. Glass è una guida senza eguali, conoscitore profondo di territori enormi e spesso incontaminati. Ha sposato una donna indiana e ha avuto un figlio, che porta con sé, al seguito di un drappello di soldati, cacciatori di bisonti e altri animali. Attaccato dagli indiani (piano sequenza di memorabile violenza e virtuosismo registico), il gruppo perde molti uomini e i pochi sopravvissuti si imbarcano e cercano la fuga, guidati dal fiuto e dall’esperienza di Glass. Ma la strada verso il forte è lastricata di pericoli e Glass aggredito da un orso, resta in fin di vita. Presto i suoi compagni si rendono conto che l’uomo ferito gravemente è un peso e un pericolo, nella condizione in cui si trovano: inseguiti dagli indiani e sottoposti alle intemperie del clima gelido. Convinti che Glass morirà, lo lasciano in compagnia di 3 uomini (il figlio, un altro ragazzo e il veterano e polemico Fitgerald), per accudirlo fino alla fine, che deve essere questione di qualche giorno. Le cose non andranno così: Fitgerald abbandonerà Glass dopo aver ucciso suo figlio. L’uomo dato per spacciato, sopravvivendo a stenti terribili, tornerà dal suo personale inferno, in cerca di Fitgerald e di vendetta.
Opera titanica (2 ore e 35 minuti) ed estremamente diversa dal precedente film di Alejandro G. Inarritu (“Birdman”, premio Oscar 2015), “The revenant” è una storia epica di sopravvivenza, di scontro tra uomo e natura, di vendetta e odio. Leonardo Di Caprio, encomiabile in un’interpretazione per gran parte del film muta, punta all’ambita statuetta di Hollywood per l’ennesima volta. Con lui altra pioggia di nominations, per il regista (il cui talento è innegabile), per Tom Hardy (coprotagonista di odiosa bravura) e in molte categorie tecniche, su tutte da citare la splendida fotografia.
Quel che però appare come il limite della storia è la sua sceneggiatura (ispirata a fatti reali e tratta dall’omonimo romanzo di Michael Punke, del 2003): quasi 3 ore di film, con passo lento e macchinoso, appesantito eccessivamente dalla dimensione onirica dei ricordi del protagonista, fin troppo truculento in certi passaggi di esplicita crudezza. Ne risente la scorrevolezza del film, troppo gravoso per buona parte della sua durata, per poi consumare il finale in una certa rapidità. Scelta opinabile, ma certamente legittima. Resta il dubbio che Inarritu sia più bravo, come narratore invece che come regista, in altre storie.