Molto spesso abbiamo sentito in questi mesi due differenti espressioni riferite al Covid: il paziente è morto “per” il coronavirus oppure “con” il coronavirus. Sulla sottile differenza che passa tra il “per” e il “con” si sono giocate statistiche, graduatorie tra Stati e tra Regioni e in parte anche il dibattito politico sulle misure emergenziali adottate.
Non c’è però alcun dubbio che il Teatro Regio sia un paziente morto con il coronavirus e non per il coronavirus, a meno di non voler considerare la Fondazione un “paziente” in ottima salute fino al febbraio di quest’anno, cosa che rasenterebbe il ridicolo.
Non è necessario scomodare Balmas e la Callas per avere un quadro abbastanza preciso di quale fosse lo stato delle finanze del Regio al termine del mandato del sindaco Piero Fassino e agli inizi di quello di Chiara Appendino.
Nell’annus horribilis delle finanze comunali, la famosa “uscita del patto di Stabilità” del 2013, l’Amministrazione Fassino del tempo dovette inventarsi ogni cosa per riuscire ad aggiustare il bilancio cittadino; una permanenza fuori dal patto di stabilità per il secondo anno consecutivo avrebbe avuto delle ricadute incalcolabili su tutta la città e sui soggetti che finanziano il copioso debito di Torino. Fu in quel contesto che fu maturata ad esempio l’operazione REAM, ma anche quella di finanziare la cultura trasferendo non soldi ma immobili agli Enti partecipati. Così anche la Fondazione Teatro Regio, che fino a quel momento aveva saputo mantenere un certo equilibrio nei conti e nei flussi di cassa, improvvisamente dovette ingoiare un veleno a lenta, lentissima azione. A onore del vero ci furono Enti che non accettarono questo patto, non accettarono di bere l’amaro calice. Pochi, uno, la Fondazione per il Libro, che però poi non ebbe fortunata sorte.
I flussi di cassa così peggiorarono improvvisamente, e si aggravarono ulteriormente grazie ai ritardi delle liquidazioni da parte dei soggetti pubblici, in primo luogo il Comune di Torino. Questo fatto portò un accumularsi di debito finanziario e una gestione sempre più problematica nel pagamento dei fornitori, in primo luogo dei cantanti di maggior richiamo.
Per evitare i conflitti sindacali interni, si era infatti ormai prossimi alle elezioni del 2016, ovviamente non ci fu alcuna conseguenza di tale peggioramento generale dei conti sui contratti di lavoro e l’effetto fu chiaro con la pubblicazione dei famoso piano di rilancio del Teatro Regio. Tra il 2013 e il 2017 il costo medio per dipendente era superiore di circa il 40% al fatturato medio per dipendente, un blando indicatore di produttività. In sostanza la Fondazione era già fallita. Al di là delle simpatie personali o delle velleità da prima donna dell’allora Direttore Noseda ecco spiegata la ragione fondamentale dei litigi, finiti anche sulle prime pagine dei giornali cittadini. Non c’erano più soldi per le tournée internazionali, eventi di sicuro richiamo mediatico per il Teatro ma soprattutto per il Maestro.
Il breve interludio del Sovrintendente Graziosi, a dire il vero, fu totalmente ininfluente nei conti del Teatro, tanto nel bene quanto nel male e non servì di sicuro a ripensare ad una nuova gestione manageriale della Fondazione. Anche se lui fosse stato il miglior manager in assoluto non avrebbe potuto fare nulla in un anno di incarico.
Lo stesso piano di sviluppo presentato il 5 marzo 2019 era stato costruito senza mai andare ad affrontare i due principali (e unici) problemi del Teatro Regio: l’equilibrio dei flussi finanziari ormai giunti allo stremo (il veleno del 2013 ormai era entrato pienamente in circolo) e il rapporto tra fatturato e costo del personale (produttività\retribuzioni).
In questo quadro fu pubblicato il bando per la ricerca del nuovo Sovrintendente (ci sarebbe da chiedersi perché questa scelta fu fatta un anno dopo, preferendo incaricare direttamente Graziosi, e non subito le dimissioni del Sovrintendente Vergnano, facendo così perdere sostanzialmente un anno intero) e lo sventurato rispose. Era il candidato perfetto: austriaco, aveva già lavorato in teatri di opera, aveva buone conoscenze nel mondo artistico e all’attivo numerose scelte vincenti di cartellone. Sarebbe stato il Direttore Artistico perfetto e invece fu scelto per essere il Sovrintendente, cioè il manager del teatro. Questi, quasi senza potersene neanche accorgere dei due problemi centrali della Fondazione, si trova ora ad essere dimesso per la scelta di commissariare il Teatro.
Forse non sarebbe cambiato nulla se al suo posto si fosse scelto un manager capace e magari con ottime conoscenze del territorio e degli Enti soci della Fondazione; forse non sarebbe cambiato nulla se la scelta del bando fosse stata fatta già nel 2018; forse non sarebbe cambiato nulla se il Ministro Bonisoli avesse contribuito a riequilibrare i flussi di cassa del Teatro, e non a promettere risorse per “investimenti” (sic!), o se si fosse chiesto agli Enti finanziatori, quali ad esempio Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT e IREN di contribuire non per “tappare un buco” (come hanno sempre generosamente fatto) ma per riequilibrare strutturalmente il Teatro. Forse due anni di cura sarebbero stati comunque pochi e di fronte all’epidemia di Covid la Fondazione avrebbe dovuto lo stesso alzare bandiera bianca. Forse. I fatti ci dicono che non è stato fatto però nulla di tutto ciò ma ogni azione possibile perché ciò che avrebbe potuto andare male andasse peggio. Il paziente è morto con il coronavirus.
Il Regio sarà, purtroppo, solo il primo.