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sabato, 27 Luglio 2024

La lotta degli educatori professionali piemontesi: “Basta chiacchiere. Siamo stanchi e sfruttati”

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Moreno D'Angelo
Moreno D'Angelo
Laurea in Economia Internazionale e lunga esperienza avviata nel giornalismo economico. Giornalista dal 1991. Ha collaborato con L’Unità, Mondo Economico, Il Biellese, La Nuova Metropoli, La Nuova di Settimo e diversi periodici. Nel 2014 ha diretto La Nuova Notizia di Chivasso. Dal 2007 nella redazione di Nuova Società e dal 2017 collaboratore del mensile Start Hub Torino.

“Vogliamo un contratto unico nazionale equiparato al pubblico, il riconoscimento di lavoro usurante e ritorni economici per dare respiro ad una categoria molto variegata che sta perdendo colpi”. Sono le richieste degli educatori professionali (sociali e sanitari) del Piemonte, impegnati in progetti educativi e riabilitativi fissati da equipe multidisciplinari. 

Una categoria sempre più sotto pressione, alle prese con una miriade di attività e percorsi (si pensi al reintegro di soggetti con problematiche psico sociali, specie nel mondo della scuola e l’intervento domiciliare presso tanti nuclei familiari. Un comparto che supporta una crescita continua della domanda di assistenza e di sociale che emerge a tutti i livelli e che richiede ampie e qualificate professionalità.

Che le cose non vadano per niente bene è evidente dalla fuga di personale esperto che si registra da tempo nella categoria. Un segno evidente che qualcosa non va.  Già, ma cosa?  Il discorso riguarda anche i ritmi e le modalità di pagamento di soggetti, quasi sempre operanti per cooperative o agenzie educative in appalto   per conto degli enti locali, scuole e ASL.

“La risposta dello Stato alla nostra fuga non può essere l’assunzione in deroga di figure senza titolo, cosa che sta vergognosamente accadendo. E’ ora di cambiare l’intero settore, i tempi sono maturi” a parlare è Federica Reburdo del direttivo del Comitato per i diritti degli educatori professionali del Piemonte.  Comitato, costituito nell’ottobre 2022, per dar forza alla vertenza di una realtà trasversale che raggruppa educatori di diversa formazione e provenienza.  La variegata operatività della categoria è così descritta nel documento base del coordinamento: 

“Lavoriamo soprattutto sull’educativa scolastica, territoriale e domiciliare ma non solo: siamo presenti in tutte le realtà in cui si renda necessario la cura della persona; lavoriamo con persone che hanno diritto all’intervento educativo grazie alla L.104 quindi seguiamo queste persone in tutti i contesti di vita dove possono aver bisogno dell’intervento educativo. Nel caso di bambini il luogo privilegiato è la scuola, ma anche la casa, il territorio, il centro diurno. Per gli adulti: inserimento lavorativo o progetti di autonomia”. 

I rappresentati torinesi del coordinamento hanno recentemente incontrato l’assessore comunale alle politiche sociali Jacopo Rosatelli.

Per i promotori si tratta di aspetti facilmente risolvibili e non così impattanti a livello finanziario. Ma serve una vera e concreta volontà politica per non restare nell’oblio delle lamentele, puntando sulla frammentarietà della categoria, per una battaglia che ha un impatto nazionale. 

Riportiamo integralmente i tre punti alla base delle richieste riportate in modo dettagliato nel comunicato del comitato degli educatori professionali piemontesi:

–          1) Riconoscimento ore in assenza utente.

–          2) Spostamenti riconosciuti come tempo lavoro e rimborsi.

–          3) Riconoscimento del lavoro indiretto.

1) Chiediamo il riconoscimento delle ore quando l’utente è assente. Attualmente succede che di fronte ad un’assenza per malattia o altra motivazione noi ci “congeliamo”: quelle ore in cui dovremmo essere a scuola o sul territorio non vengono riconosciute dall’ente come ore lavorate. Questo ovviamente è drammatico e significa che la settimana successiva per recuperare dobbiamo fare le nostre 40 ore, più le 10 di recupero sempre che famiglia, scuola e altri attori diano il consenso. Infatti, alcuni Comuni o Consorzi non permettono il recupero; altri lo consentono ma solo nella settimana in corso, evidentemente impossibile. 

Si va quindi in banca ore negativa, che diventa un cappio al collo più che favorire l’educatore. Non per niente la maggior parte dei lavoratori è part time. La politica dovrebbe interrogarsi sul perché un intero settore sia gestito con una maggioranza schiacciante di lavoratori part-time. 

Chiediamo che in assenza utente le ore stabilite vengano pagate dall’ente. Le ore per ogni utente sono decise da settembre a dicembre e poi da gennaio a giugno e messe a bilancio. Pertanto, sarebbe una misura di civiltà e dignità che non necessita di nuovi incrementi di spese. 

Noi chiediamo di segnalare sicuramente l’assenza, ma di poterci recare ad esempio lo stesso a scuola, preparare materiale, seguire le lezioni, prendere appunti, fare del lavoro indiretto. Sarà poi l’ente di fronte alle assenze ripetute a chiederne conto alla famiglia e eventualmente riformulare l’intervento. È inammissibile che questo aspetto venga rovesciato sul lavoratore. 

2) Chiediamo che ci vengano riconosciuti gli spostamenti da un luogo all’altro di lavoro come tempo lavoro e come rimborso benzina, soprattutto di fronte al fatto che sono gli stessi enti a chiedere che l’intervento educativo venga spalmato su più passaggi tra scuola e casa, ad esempio. Da un punto di vista educativo può anche avere un senso… voi immaginatevi su quattro utenti per quattro passaggi, quanti spostamenti alla settimana vengono fuori: da una scuola all’altra, da una casa all’altra di mezz’ora e un’ora tra Torino e cintura, tra paese e paese. 

Non viene considerato tempo lavoro…. gli enti non possono pretendere di avere lavoratori teletrasportati. Come se noi fossimo presenti a lavoro solo in quelle ore e poi scomparissimo. Il tempo di spostamento è tempo lavoro. Per portare a casa 6 ore di lavoro usciamo alle 7 e torniamo alle 19… tra spostamenti e pause obbligate diventa una giornata eterna. Con il riconoscimento di queste mezz’ore tra un luogo d’intervento e l’altro riusciremmo ad avere un orario decente di lavoro. 

3) Chiediamo un riconoscimento del lavoro indiretto, che è immane. Colleghi che passano la sera e il weekend a preparare rielaborazioni, a preparare ingrandimenti del materiale, ad esempio, per ipovedenti o a riadattare testi Anche per la stesura della documentazione come il PDF vengono riconosciute un numero irrisorio di ore. È arrivato il momento di riconoscere il lavoro intellettuale dell’educatore, ossia il tempo per pensare, progettare, organizzare, inventare e creare percorsi. 

 “Portare sul tavolo dei politici regionali, comunali, nazionali, queste problematiche e ottenere risposte è il nostro obiettivo” conclude la Reburdo.

Il Comitato diritti educatori professionali del Piemonte parteciperà e interverrà allo sciopero e alla manifestazione indetta da “Non Una di Meno” per l’8 marzo. https://nonunadimeno.wordpress.com/

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