«Mia figlia muore e nessuno si vuole prendere la responsabilità di curarla».
Questo è il grido di dolore di una madre che chiede aiuto, ma non solo per sua figlia gravemente malata. Lei è Marina Cometto, di Torino, presidente dell’Associazione “Claudia Bottigelli”, la Onlus che prende nome da sua figlia, colpita dalla sindrome di Rett e da anni bloccata su una sedia a rotelle. Da sempre impegnata nella difesa dei diritti dei disabili e alle loro famiglie.
Claudia oggi ha 40 anni. Per il padre, la madre e la sorella è stata un dono grande, ma per i medici e per il gergo freddo degli ospedali, è una “malata complessa”.
Non cammina e non parla, quindi, non può spiegare quale sintomi prova quando sta male. Infatti, la sindrome di Rett è una patologia progressiva dello sviluppo neurologico che di solito colpisce le bambine proprio come è accaduto a Claudia che ne è vittima dalla tenera età.
Mentre gli altri bambini incominciavano a muovere i primi passi e a pronunciare le prime parole, lei perdeva quelle stesse facoltà. E da allora il suo corpo ha smesso di funzionare come dovrebbe.
Oggi le condizioni di Claudia sono peggiorate perché dai primi giorni di settembre ha smesso di mangiare rifiutando cibo e acqua.
«Claudia è da metà settembre che sta male lei che beveva 10 vasetti acqua gel al giorno, che mangiava pranzo e cena abbondanti e volentieri, che nel pomeriggio beveva il frullato di frutta volentieri, ha iniziato a rifiutare il cibo, poi l’acqua, fino a non alimentarsi più per niente» spiega Marina Cometto.
Comincia così il giro negli ospedali e nel primo, per tre giorni Claudia viene alimentata tramite un catetere venoso centrale e dopo dodici viene dimessa con una diagnosi: feci ferme, ovvero una forma di occlusione intestinale, «smentita poi dalla relazione di dimissioni che evidenzia altre cose che non sono mai state espresse a voce» evidenzia Marina.
La verità secondo lei, è che i medici non riescono a capire cosa sia accaduto a Claudia: «Mia figlia muore lentamente e nessuno si vuole prendere la responsabilità di farle esami invasivi per sapere cos’ha». «Ci è sembrato un comportamento per liberarsi di un paziente scomodo» dice indignata.
«I medici avrebbero dovuto sottoporla a colonscopia e gastroscopia, ma questo tipo di esami sono troppo invasivi per lei, perché andrebbero eseguiti in sedazione ma nessun medico se l’è sentita di procedere».
Dopo le dimissioni Claudia torna a casa, ci sono dei miglioramenti. Uno su tutti: riprende e mangiare.
Nel frattempo sua madre si rivolge ad un altro ospedale che possa eseguire in regime di ricovero tutti gli esami necessari per una diagnosi certa. E Marina, arriva così in un secondo nosocomio dove anni prima Claudia è stata operata con «ottimi risultati e curata brillantemente», come racconta Marina. Ma qualcosa da allora è cambiato e anche in questa struttura le viene detto che i pazienti complessi non possono essere più accettati. L’unico consiglio che riescono a darle è di rivolgersi alle Molinette o al Giovanni Bosco, le uniche strutture in grado di offrire «percorsi adeguati e non diagnosi frettolose e approssimative, con le quali i pazienti vengono dimessi subito dopo la fase acuta»
Già, perché pazienti come Claudia vengono, come dicevamo all’inizio, definiti complessi, ma di complesso non c’è nulla: i percorsi e le prassi ospedaliere sono più lunghe e delicate, ma alla base del problema c’è ben altro. Le strutture attrezzate per accogliere questi malati sono poche perché non ci sono soldi.
Adesso Claudia è di nuovo in ospedale, ricoverata alle Molinette, e le sue condizioni sono ancora gravi. «Abbiamo perso del tempo prezioso – racconta Marina – Chiedo che la Sanità piemontese si prenda le responsabilità dovute e diagnostichi e curi Claudia adeguatamente. Non voglio risarcimenti quando mia figlia sarà morta, ma salvarle la vita» conclude.
La speranza è che l’appello di di questa madre arrivi a tutti. Soprattutto ai piani alti della politica, agli amministratori e che di fronte al prossimo taglio al bilancio possano ricordarsi dell’importanza di queste parole.
Continuare a tagliare sulla Sanità è come dare un taglio alle vite di malati come Claudia, più fragili degli altri, destinati a soffrire e a non poter esprimere il loro dolore e per questo, spesso considerati pazienti di serie B.
LEGGI ANCHE:
Un’altalena per volare. Il sogno dei ragazzi disabili di Torino
Disabilità, legge “dopo di noi”: lettera aperta di una mamma che non vuole più aspettare