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I diari di Bruno Trentin

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Gli scritti del sindacalista dal 1988 – 1994 in un volume curato da Iginio Ariemma, Un documento importante per avvicinarsi alla radice dei problemi innescati allora proprio da una disinvoltura eccessiva.

 

di Giovanni De Luna

Tra il 1992 e il 1994 il sistema politico italiano fu travolto dallo scandalo di Tangentopoli. A sinistra, fu significativa la sparizione di un partito con una lunghissima tradizione storica come il PSI ( precipitato dal 13,6% alle elezioni del 1992 al 2,2% a quelle del 1994), che si intrecciò con la spaccatura del vecchio universo del comunismo italiano (alle elezioni del 1994, il PdS ottenne il 21,1% dei voti e il Partito della Rifondazione comunista l’8,6%).

Al centro il terremoto fu ancora più clamoroso e comportò la dissoluzione del partito governativo per eccellenza, quella DC che aveva dominato la scena politica italiana: alle politiche del 1992 aveva ottenuto ancora il 29,7%; alle successive, nel 1994, non erano presenti liste democristiane!

Oltre alla sinistra e il centro, questi cambiamenti riguardarono anche l’area dell’estrema destra: qui, con la trasformazione del MSI in Alleanza Nazionale, si passò dal 5,4% del 1992 al 13,5% del 1994 . Il fenomeno più vistoso fu quello della nascita di Forza Italia, “il partito istantaneo” come allora fu definito. Fondato il 6 febbraio 1994, solo due mesi dopo, alle elezioni politiche del 27 marzo, ottene più di 8 milioni di voti (il 21%), 155 deputati e 56 senatori.
Fu una cesura che si intrecciò con una congiuntura storica che – dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989 – sembrò azzerare tutta intera l’esperienza novecentesca dei partiti del movimento operaio (come allo si chiamavano il PCI e gli altri partiti comunisti).
Il fenomeno fu così vistoso che ancora oggi gli storici fanno fatica a darne un’interpretazione esaustiva e a sciogliere i tanti paradossi che si addensano su quel periodo.

Uno fra tutti: per molti esponenti del PCI e della sinistra il crollo dei loro ideali coincise con il punto più alto della loro carriera politica, portandoli a ricoprire le massime cariche istituzionali, (Presidente della Repubblica, Presidente della Camera, Presidente del Consiglio, Ministro degli esteri, etc..). Nessuna elaborazione del lutto, un passaggio epocale archiviato senza nessuna consapevolezza delle sfide che la nuova fase comportava.
In questo contesto, il Diario di Bruno Trentin, curato da Iginio Ariemma, diventa un documento importante per avvicinarsi alla radice dei problemi innescati allora proprio da una disinvoltura francamente eccessiva.

Il tono del libro, che copre gli anni dal 1988 al 1994, quando Trentin fu segretario generale della CGIL, è segnato da un pessimismo radicale, senza nessuna concessione al compiaciuto ottimismo dei molti compagni di partito, subito pronti ad archiviare il passato attraverso una rimozione totale, ritenuta necessaria per legittimarsi nel nuovo sistema politico che stava nascendo con la Seconda Repubblica. Per Trentin, questa “ostinazione iconoclasta” era dolorosamente evidente nel modo con il quale, nel 1989- in occasione del bicentenario della rivoluzione francese- nelle file del PCI si avviava un processo ai giacobini che portava a demonizzare quell’esperienza, attraverso “una grottesca divisione a fette della rivoluzione francese”, cancellando di colpo una eredità pure molto significativa ( “basti pensare“, scriveva il 5 febbraio 1989, “al concetto di cittadinanza che ridimensiona e supera il diritto di proprietà. Alla lotta che comincia per il suffragio universale, allo stesso rifiuto dell’ipotesi tirannica anche nella sua versione cromwelliana… oltre a un’intima coerenza morale che resistette a ogni concezione machiavellica del potere”).
Per Trentin, la furia dei suoi compagni era meramente “finalizzata all’ingresso nell’area del governo” e si alimentava di “processi sommari e dilettanteschi alla propria ragion d’essere”, senza capire che in quel modo ci si consegnava a un presente svuotato di ogni spessore e che li privava di qualsiasi brandello di identità. In realtà, quel passato più che processato andava elaborato, capito, interpretato, con la consapevolezza che si stava concludendo un grande ciclo storico “che con le sue tragedie e le sue alienazioni aveva coinciso con il riaccorpamento volontaristico e autoritario di grandi imperi sottosvliluppati, fino ad allora marginalizzati dalla politica mondiale”.

Per tutta quella fase, al centro delle scelte della sinistra, c’era stata la grande scommessa dell’artificialismo politico, del tentativo, cioè, di restituire all’uomo il ruolo di protagonista di un processo storico non governato più né dalla natura, né dalla religione ma consegnato integralmente alla razionalità della politica. Il fallimento di quella scommessa aveva travolto proprio quella concezione salvifica di una politica che per tutto il ‘900 si era identificata con la statualità, “imprigionando nello Stato…..la capacità progettuale del movimento comunista, del comunismo come critica dell’esistente”.
Era questo il passaggio che Trentin viveva come un dramma personale, rispecchiando nel suo pessimismo il declino di una intera generazione, segnata dal dilettantismo “retorico e narcisistico di Ingrao” e che lo coinvolgeva direttamente, in prima persona: “… io sento come il mio linguaggio, la mia memoria, il mio stesso modo di pensare siano diventati sempre più difficili da trasmettere, almeno di non mimetizzarli con la demagogia o il trasformismo. Sono passati decenni, non solo dal 1969, ma dagli anni ’50, quando la solidarietà e l’unità erano l’obbiettivo e il sogno di una minoranza determinata che riusciva a infondere d fiducia non per la sopravvivenza di ciascuno ma per la salvaguardia si alcuni valori..”.

Questa impossibilità di comunicare, questa improvvisa afasia politica si traduceva in un grido di impotenza rispetto alla degenerazione del sindacato, (dilaniato dalla personanizzazione dei conflitti interni, sospeso tra “massimalismo corporativo e riformismo impotente”) e di un partito come il nuovo PdS, facile preda di un pragmatismo trasformistico fine a se stesso, ossessionato da una “partecipazione al governo” da raggiungere esclusivamente “attraverso manovre di vertice e alleanze politiche, senza un progetto concreto”. A fare da sfondo a questa realtà era una società civiile disgregata, immersa in una congiuntura culturale in cui “la rappresentazione della realtà” prendeva il sopravvento sulla realtà: “Quello che conta”, scriveva il 16 gennaio 1992, “è l’immagine effimera che queste posizioni possono dare alla singola persona che vuole essere capo di un gruppo politico o di un partito rispetto ai suoi più vicini e impazienti sostenitori..” Era per questo che- il 25 febbraio successivo- segnalava con preoccupazione la strategia della nuova destra, (“una forza incolta che può imporsi attraverso l’immagine, del transfert di potenza di una società dello spettacolo e dello sport vissuto per interposte persone….”) per scorgere in tutto quello (22 marzo) “l’emergere della società ludica e violenta del voyeurismo calcistico”, intravedendo, in maniera quasi profetica, “la tremenda fragilità della società civile italiana…”.

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