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sabato, 27 Luglio 2024

Gabriele Molinari: “L’Europa non può essere a due velocità ma un progetto condiviso”

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Susanna De Palma
Susanna De Palma
Laureata in Scienze Politiche. Giornalista professionista dal 2009. Fin dagli anni del liceo collabora con alcuni giornali locali torinesi, come la Voce del Popolo e Il Nostro Tempo. Dal 2005, pur mantenendo alcune collaborazioni, passa agli Uffici Stampa:Olimpiadi 2006, Giunta regionale, Ostensione della Sindone. Attualmente giornalista presso l'ufficio stampa del Consiglio regionale Piemonte.

Gabriele Molinari del Partito Democratico è consigliere segretario nell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale del Piemonte. Con lui abbiamo parlato di Unione Europea e del ruolo dell’Italia e del suo governo “populista” negli equilibri politici del Continente.
In Italia abbiamo un governo per la prima volta «populista». Potrebbe essere la linea di questo governo a cambiare la storia europea? 
Mai come questa volta abbiamo un governo che punta a stimolare reazioni di pancia, rigorosamente contro qualcuno o qualcosa. Le promesse elettorali non erano, e non sono, in alcun modo mantenibili. Lo abbiamo sempre detto, del resto. Così ora si individua o nell’Europa tecnocrate o, in mancanza, nei tecnici di un ministero, come dimostra l’affaire Casalino, il nemico su cui scaricare la propria incapacità e la rabbia popolare.

Siamo davvero diventati il Paese di riferimento della rivolta nazional-populista contro l’Europa? E’ concepibile secondo lei un’Europa senza Italia?
L’Italia per troppi anni non ha saputo o voluto spiegare alle persone la necessità di una prospettiva europea. Da noi si discute sempre di politica interna, anche in occasione delle elezioni europee. Considerando che la stessa politica interna è diventata sempre più provinciale e lontana dai grandi temi internazionali, si spiega bene il successo di chi gioca una partita populista e antiglobalista, facendo l’apologia di piccoli cortili insignificanti e senza futuro.
Siamo in un momento difficile della vita dell’Europa, in cui vengono messi in discussione non solo il progetto di libertà, democrazia, pace e sviluppo che ha rappresentato in questi 60 anni l’Unione europea, ma anche le radici, l’identità, la cultura. Come salvaguardare tutto questo da chi critica l’efficacia del progetto Stati Uniti d’Europa?
Abbiamo una classe politica che ignora in larga parte le vicende storiche e addirittura le stesse funzioni dell’Unione: ciò pone un problema serissimo. Facendo finta di non cogliere questo problema, che è comunque – lo ripeto – grave, resta un’unica soluzione: far comprendere a milioni di persone in che modo e attraverso quali percorsi la prospettiva europea sia stata un enorme supporto al benessere e alla stabilità dei singoli stati nazione. A partire dai nuovi Paesi membri, quelli dell’Est, e, in particolare, dall’Ungheria di Orban: loro sono i principali beneficiari dei finanziamenti di Bruxelles e al contempo i principali detrattori delle istituzioni comunitarie. E’ per questo che andrebbero probabilmente cacciati.
La cultura può rappresentare la scialuppa di salvataggio rispetto alla difesa di questo progetto?
La cultura è fondamentale, ma non può salvare l’Europa da sola. Può e deve essere il veicolo attraverso il quale costruire una “coscienza europea”, quella che Steiner descriveva raccontando la vita e gli incontri nei caffè. Essa, però, a sua volta si deve fondare sui pilastri di cui parlavo prima, che sono essenzialmente economici e sociali. L’Europa serve perché dà, attribuisce agli Europei, in ricchezza e sicurezza, contrariamente all’idea diffusa secondo cui toglierebbe. E’ questo che deve essere prima di tutto chiarito, smontando le bugie sovraniste.
Centralizzare certe politiche di spesa renderebbe i Paesi europei più simili gli uni agli altri facendo diventare l’area euro più solida e portando a convergere le politiche dei vari stati membri? Ad esempio, centralizzando i sussidi di disoccupazione o la tassazione sulle imprese, rendendo più omogenei i mercati del lavoro?
Sarebbe senza dubbio una soluzione interessante, come sarebbe formidabile una solidarietà fiscale europea, che metta in condizione un bretone e un calabrese di sentirsi concretamente parte della stessa cosa, di uno stesso progetto al quale contribuire – tutti – con la consapevolezza di una reale utilità comune. Ma anche al di là della definizione delle singole soluzioni pratiche quel che serve è “mettere in comune” progetti, processi e decisioni tra i diversi Paesi, limitando un’idea di sovranità nazionale ormai soltanto interdittiva. Questi devono essere gli “Stati Uniti d’Europa”: un luogo in cui l’interesse globale sia prevalente, esattamente come avviene nelle altre potenze mondiali. Solo da noi, nell’Europa di oggi, un trattato di libero scambio commerciale deve essere ratificato da tutti i parlamenti nazionali. Il che è incredibile. Ma lei se lo vede il Maine o l’Arkansas che bloccano il governo e il parlamento americano? Ma davvero qualcuno pensa che queste farraginose modalità operative, e il conseguente dilatarsi dei tempi, non pregiudichino le nostre opportunità di cittadini d’Europa?
Ha recentemente dichiarato che per assicurarsi una prospettiva la chiave è tornare a fare cose semplici ma in fondo nuove, le cose che, anche come Pd, non avete fatto finora: con i piedi ben saldi in un’Europa che dobbiamo volere, e volere rendere sempre più forte. Ci faccia qualche esempio. 
Serve una cultura dell’aggregazione per economie di scala. Abbiamo politici e forze politiche che per bassi fini propagandistici puntano su un’idea di frammentazione e competizione per micro territori, proponendo una retorica dell’orgoglio identitario. Era un’idea già sbagliata negli anni Ottanta e Novanta, oggi è totalmente sciagurata. I territori maggiormente isolati già stanno soccombendo. Nei prossimi anni questo fenomeno sarà ancora più avvertito: chi non correrà ai ripari, costruendo reti e ponti, sarà spazzato via. Per dare un segnale forte a chi vende l’idea del “piccolo è bello” occorre che siano, in primis, le Regioni a offrire un esempio virtuoso, aggregandosi come è stato fatto altrove. Si veda la Francia. Non solo. Serve un piano di cooperazione tra le diverse realtà metropolitane, che governi i processi e i collegamenti, massimizzando le utilità e migliorando i servizi. Per me non ha più alcun senso un Piemonte separato dalla Lombardia, ma trovo ancor più assurdo veder competere Torino e Milano anziché lavorare insieme.
Esiste un piano B per l’Europa?
No e non credo all’ipotesi di un’Unione a due velocità. Esiste, invece, a mio avviso, un’ipotesi molto preoccupante che vede i signori oggi al governo a Roma scaricare su Bruxelles e sull’Unione la colpa dei loro prossimi inevitabili fallimenti, fino a proporre un referendum per uscirne.
Se per caso lo vincessero, l’Italia sarebbe fuori. Un secondo dopo, però, si frammenterebbe essa stessa. C’è una gigantesca questione settentrionale che, al momento, nessuno vuole affrontare. Cova sommersa, come la lava sotto un vulcano. La Lega si è completamente disinteressata del Nord, come dimostra anche la questione Tav, ma le ragioni di un’area geografica e popolare che da sola traina il resto d’Italia non potranno essere calpestate all’infinito. Questa è un’altra grande questione che il Pd dovrebbe affrontare, senza retorica e con autentico spirito critico. Fare finta di nulla sarà il nostro ennesimo suicidio.

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