Questa storia, vera, è dedicata all’esercito di ragazzini delle scuole calcio, degli oratori e delle periferie che sognano di poter domare la vita usando un pallone. Si chiama Wilm Kieft, olandese di Amsterdam, ha cinquantaquattro anni e vive in un camper con i dieci euro al giorno che gli passa l’assistenza sociale. Era bello, biondo e anche bravo con il pallone. Lo ricorderanno bene i tifosi del Toro del presidente Sergio Rossi e del tecnico Gigi Radice.
Una stagione indimenticabile, per lui e per la gente granata quella del 1986-87. La squadra non andò benissimo, chiudendo all’undicesimo posto, ma il magico olandesino si laureò capocannoniere segnando sedici reti.
Una performance che gli valse la “Scarpa d’oro” e un surplus di popolarità da far girare la testa. Era un campione Kieft, certamente, e poteva avere il mondo ai suoi piedi. Ma era un campione fragile, se osservato controluce, incapace di reggere il peso della fama e quindi portato a confondere la realtà con la finzione. Donne. Un mare di donne, per cominciare. Alcool. Un fiume di alcool, per tenersi su. Cocaina, una valanga di cocaina per reggersi in piedi. In poco tempo, Wilm è un vuoto a perdere come calciatore e, soprattutto, come uomo. A differenza di George Best, altro genio del pallone rovinatosi consapevolmente con le sue mani, lui non era in grado neppure di difendere il personaggio che si era costruito addosso nell’arco della sua carriera. Non sarebbe mai stato una leggenda, seppure tragica. Oggi è un barbone, tossico, inseguito da fisco, creditori e malavitosi. Questa storia non vuole avere una morale, ma soltanto offrire un suggerimento a tutti i ragazzini che sognano di poter essere, un giorno, come Balotelli o Cassano. A calcio prima si gioca con il cervello e poi con i piedi.