Stamane è stato immediato riflettere sul destino del Pd, dopo l’ascolto dell’intervento di Sergio Chiamparino alla trasmissione radiofonica “Radio Anch’io”. Parole con cui il presidente della Regione Piemonte ha posto istruttivamente e con rigore al Partito Democratico post renziano (almeno in teoria) il problema non già di chi comanda nel partito, ma di chi ne ha la responsabilità.
Questione dirimente per il futuro del Pd che sta vivendo anche una crisi di valori oltre che di rappresentatività e di identità. Perdite che si sommano per poi annullare l’elemento portante della nascita del Pd: il senso di comunità e di appartenenza derivate soprattutto dall’incontro di due grandi esperienze, quelle cattolica e comunista.
Al centro della riflessione di Chiamparino c’e la gestione di un partito sempre meno partito e dunque sempre meno credibile, qualcosa di già visto in passato, in cui la raccolta delle tessere ad uso personale affidata al cacicchio di turno e l’esaltazione acritica delle primarie prevarica le idee, mortifica il dibattito interno, per facilitare la redistribuzione di facili scalate e posti in lista.
Ora distinguere tra comando e responsabilità, mentre nel Pd c’è aria dell’ennesima resa dei conti, ai più potrebbe sembrare l’ennesimo esercizio dialettico di chi, proprio per aggirare le responsabilità, ha condiviso tutto il condivisibile del potere renziano fino al 4 marzo. “Dura minga”, come diceva un’antica pubblicità di Carosello.
Comando o responsabilità?
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