di Enrico Peyretti
L’assenza di retorica è il valore di questo film, che denuncia e condanna con coraggio, in coproduzione euro-africana, il fondamentalismo islamista e il suo attacco a diverse culture in varie parti del mondo. I fanatici non sono dei mostri e l’islam autentico è stimato e non è offeso insieme alla sua degenerazione. Così una composta critica è molto più seria, forte ed efficace degli sberleffi osceni che conosciamo e delle reazioni ignoranti.
Gli jihadisti sempre armati che impongono divieti assurdi ad una popolazione di normale civiltà e di religione islamica buona e gentile – vedi il saggio imam vestito di bianco e la famiglia affettuosa di Kidane – non sono furiosamente feroci. Così la loro astratta durezza di cuore, profondamente irreligiosa e disumana, risalta maggiormente nelle ingiustizie e sofferenze che causa. Il loro freddo assolutismo contrasta con la capacità di gustare la vita della gente comune, che manifesta tratti di spiritualità paziente e fiduciosa, e anche di rivolta femminile consapevole e dignitosa. Forse non è del tutto chiaro il racconto alla fine, ma è chiaro il legalismo senza umanità denunciato in nome dell’umanità universale e plurale, che è il bene da custodire ovunque con la forza della ragione mite e solidale. Rimane inquietante l’ultima immagine di Toya e Issan, i due ragazzi che fuggono disperatamente: inseguiti dal male o verso un nuovo futuro?