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giovedì, 12 Dicembre 2024

Se c’è un bersaglio il rischio non è mai nullo, facciamocene una ragione

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Che cos’è il rischio?
Il rischio è rappresentato dalla possibilità che un fenomeno naturale o indotto dalle attività dell’uomo possa causare effetti dannosi sulla popolazione, gli insediamenti abitativi e produttivi e le infrastrutture, all’interno di una particolare area, in un determinato periodo di tempo.

Rischio e pericolo non sono dunque la stessa cosa: il pericolo è rappresentato dall’evento calamitoso che può colpire una certa area (la causa), il rischio è rappresentato dalle sue possibili conseguenze, cioè dal danno che ci si può attendere (l’effetto).

Per valutare concretamente un rischio, quindi, non è sufficiente conoscere il pericolo, ma occorre anche stimare attentamente il valore esposto, cioè i beni presenti sul territorio che possono essere coinvolti da un evento, e la loro vulnerabilità.
Il rischio quindi è traducibile nella formula: R = P x V x E .

P = Pericolosità: la probabilità che un fenomeno di una determinata intensità si verifichi in un certo periodo di tempo, in una data area.

V = Vulnerabilità: la vulnerabilità di un elemento (persone, edifici, infrastrutture, attività economiche) è la propensione a subire danneggiamenti in conseguenza delle sollecitazioni indotte da un evento di una certa intensità.

E = Esposizione o Valore esposto: è il numero di unità (o “valore”) di ognuno degli elementi a rischio presenti in una data area, come le vite umane o gli insediamenti.

Il prodotto V x E è anche noto come D = Danno.
La pericolosità è una caratteristica intrinseca del sistema naturale, il danno dipende invece dalla vulnerabilità e dalla condizione di esposizione del bersaglio.

Facciamo un esempio paradossale ma che aiuta ad afferrare i concetti: mi trovo nel deserto del Sahara, dove non c’è nulla se non sabbia e sotto una duna che può non essere stabile perché mossa dal vento. Qual è la pericolosità intrinseca dello spostamento della duna di sabbia? La probabilità che si sposti?

È intuitivo: altissima, è altamente probabile che la duna si possa muovere a causa dell’instabilità della sabbia mossa dal vento. Qual è il rischio in questo caso? Nullo, non ho bersagli esposti a danno potenziale e quindi la duna si può muovere quanto vuole ma non produce alcun danno e quindi il prodotto è nullo.

Adesso mi sposto in Italia, ho una chiesetta che contiene un affresco preziosissimo che si trova in un’area che in caso di piena catastrofica potrebbe venire sommersa.

Calcolo sulla base di studi idraulici e geomorfologici qual è la probabilità che si verifichi una piena che può sommergere la chiesetta. Diciamo una volta su 500 anni. La pericolosità è quindi molto più bassa che nel caso della duna. Sì, ma qual è il rischio? Beh, in questo caso esiste un bersaglio ad alto valore che è vulnerabile, che può subire un danno, e quindi il rischio di perdere l’affresco non è zero.

Nel primo caso un fenomeno altamente probabile non produce alcun rischio di perdita di valore, nel secondo un fenomeno decisamente meno probabile produce rischio di perdita di valore.

Nel campo della protezione civile tutte queste variabili (pericolosità, vulnerabilità, esposizione, danno e quindi rischio) dovrebbero essere quantificate. Un buon piano di protezione civile è quello che minimizza il rischio ossia la combinazione finale rendendolo il più basso possibile. Ovviamente questa quantificazione numerica delle singole variabili talvolta è possibile altre volte è molto più ardua e ci si deve limitare a stime qualitative. Ma andiamo oltre.

Veniamo ad un primo nodo. Come minimizzo il rischio?
Posso provare ad agire sui diversi fattori che lo determinano (sia simultaneamente che separatamente). Ad esempio posso provare a ridurre la pericolosità (intervengo a stabilizzare la duna nel primo caso, agisco sulla morfologia dell’asta fluviale nel secondo caso) e/o tentare di limitare il danno riducendo vulnerabilità ed esposizione bersaglio.

Nel primo caso non serve (non ho neanche il bersaglio), nel secondo caso…beh qualcuno potrà azzardare e proporre di rimuovere l’affresco o addirittura l’intera chiesetta. Non è di per sé tecnicamente impossibile e, seguendo la logica del ragionamento, è un’ipotesi teoricamente percorribile. Se voglio avere la certezza che l’affresco non sia a rischio di essere alluvionato lo tolgo di lì.

Ecco, supponiamo di riuscire a quantificare il costo della rimozione del bersaglio (nel nostro esempio teorico un milione di euro) a qualcuno verrebbe in mente di farlo? Magari sì, non escludo che si aprirebbe un grande dibattito se quel milione di euro che servono per i lavori di rimozione devono essere spesi effettivamente per rimuovere la chiesetta o invece sarebbe meglio destinarli alla sanità pubblica, oppure tra i sostenitori del fatto che rimuovere la chiesetta significherebbe sottrarre un patrimonio culturale e paesaggistico ad un territorio e privarlo della sua anima e chi invece sosterrebbe che non ci possiamo permettere di perdere un affresco tanto importante, ecc. ecc.

Insomma, tutti accetteremmo pacificamente di avere un bene a rischio e ci interrogheremmo sull’appropriatezza e la proporzionalità del costo della sua salvaguardia. Ovviamente in questo caso potremo farlo anche perché la cosa, pur costosa, è fattibile.

Ora immaginiamo per un istante che di chiesette a rischio così ce ne siano qualche decina di migliaia. Anzi immaginiamo che invece che chiesette e affreschi ci siano ospedali, scuole, abitazioni. Diciamo che nella condizione della nostra chiesetta si trovi la vita di qualche milione di italiani (o di qualche centinaia di milioni di persone nel mondo).

Sappiamo che la vita umana è il bene supremo da tutelare ad ogni costo, su questo siamo unanimi. Ammesso che sia tecnicamente possibile (e non lo è), a qualcuno verrebbe in mente di spostarli tutti perché sono a rischio di essere uccisi da un evento naturale? Tipo un’alluvione, un terremoto, una frana, un crollo? Non credo. Quello che possiamo ragionevolmente fare è, se ci riusciamo, attuare alcune opere di riduzione della pericolosità che quell’evento possa accadere, e contemporaneamente provare a ridurre il danno abbassando vulnerabilità ed esposizione.

Ad esempio se il pericolo deriva da un terremoto possiamo fare costruzioni antisismiche (non elimino il terremoto ma ne contengo i danni) oppure se il rischio è un’alluvione posso costruire degli argini che proteggono fisicamente alcune aree e/o mettere dei sistemi di allerta sui corsi d’acqua che mi consentono di evacuare le persone ed evitare perdite di vite umane, ecc. ecc. Insomma, alcune cose per ridurre il rischio le posso fare.

Ovviamente oltre che il principio dell’adeguatezza tecnica occorre quello della proporzionalità che deve tenere conto anche delle risorse economiche di cui posso disporre. Ma anche assumendo per assurdo che queste risorse economiche siano infinite e che esista la reale possibilità di azzerare il rischio rimuovendo completamente il bersaglio (sposto milioni di italiani e le città dove vivono da un’altra parte) esiste alla fine una scelta da compiere: avrebbe senso?

Saremo disposti a evacuare per sempre le città dove viviamo da migliaia di anni e rinunciare alla nostra vita perché esiste 1 probabilità su 50.000 di morire per l’esondazione del fiume che scorre vicino a casa nostra?
Ragionevolmente credo di no.
Possiamo provare a ridurre il rischio, anzi dobbiamo farlo, ma alla fine tutti saremmo disposti ad accettarne l’esistenza.
Il rischio zero è un’astrazione concettuale, non esiste.

È cinico? Si.
È crudele? Sì.
Ma mi spiace, è così.

Il Covid anche quando sarà trovata una cura efficace o un vaccino, quando questo vaccino sarà disponibile e quando in virtù di questo vaccino l’epidemia rallenterà progressivamente fino a sparire non presenterà rischio zero comunque.

Fino a quel momento quello che possiamo fare è accettare di convivere con il rischio di beccarcelo e di morirci. Si può azzerare questo rischio? No, non si può. O meglio, anche qui, come per la chiesetta, una soluzione teoricamente c’è: isolandosi completamente del tutto. È possibile? No. Non lo è.

E anche i più accaniti sostenitori del lockdown duro e puro hanno dovuto accettare che, anche nel pieno del picco dell’epidemia si potesse andare al supermercato. Del resto per vivere devi mangiare e bere. Anche se uscire aumenta il livello di esposizione e quindi il rischio abbiamo accettato di incrementarlo. Perché? Perché è un rischio che è necessario. Necessario.

Ecco alla fine il dibattito sulla fase 2 è tutto lì. Cosa è “necessario” e cosa non lo è. Più o meno consapevoli che il rischio nullo lo puoi solo invocare, auspicare ma di fatto non avere. Il rischio non è nullo e non lo potrà mai essere.

Ed è in questo campo di gioco del “necessario” che si gioca la partita. E questo è un campo di gioco molto poco quantificabile e anche piuttosto aleatorio e soggettivo.

Ecco allora forse che la cosa più razionale e meno emotiva, soprattutto se questa situazione come sembra durerà per molto tempo, sia quella di pensare individualmente e collettivamente a come sforzarci, con queste consapevolezze di fondo, al fine di ridurre sì il più possibile la propria e l’altrui esposizione e vulnerabilità nelle diverse situazioni di vita ma farlo consentendo che la vita possa gradualmente riprendere.

La vita di quelli che, usando un’infelice espressione di qualcuno, “fanno PIL” ma anche di quelli che “non fanno PIL”.

Stefano Lo Russo
(capogruppo del PD e Professore Ordinario di Geologia Applicata al Politecnico di Torino)

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