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sabato, 27 Luglio 2024

Scontro Iran-Usa: prove tecniche di un nuovo ordine

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

C’è chi si ostina ad affermare che il mondo è quello di sempre. Chi invece, pur vedendo i cambiamenti effettivi, fornisce spiegazioni che molto hanno a che vedere coi desideri e poco con la realtà.

Ma il mondo sta cambiando, ogni giorno che passa. E, ad onor del vero, chi se n’è accorto prima degli altri è chi teme di non veder più riconosciuto il suo potere egemonico, ovvero gli Stati Uniti.

Tutti gli studiosi di relazioni internazionali, da quelli di indirizzo realista ai costruttivisti, affermano da circa un decennio che l’unipolarità che ha determinato l’assoluta egemonia degli Stati Uniti post guerra fredda si sarebbe sgretolata poco a poco, lasciando il posto a una multipolarità che avrebbe visto l’avanzamento poderoso di altre potenze mondiali, prima dal punto di vista economico e poi da quello politico. Queste analisi oramai sono la realtà. Ed è altrettanto realtà quella che vede gli Usa assolutamente non inclini all’accettazione del nuovo paradigma mondiale prossimo venturo.

In assenza del freno costituito dall’Urss, gli Stati Uniti hanno potuto abbandonare presto il ruolo di egemone benevolo: quello della potenza che aveva a cuore i destini del mondo e che rappresentava l’universo democratico in contrapposizione alla dittatura comunista.

Dal 1992 però gli Usa hanno mantenuto ben salde le basi Nato, sebbene la Nato fosse stata fondata come alleanza strategico-militare proprio contro l’Urss e gli Stati satelliti. Anzi: le basi sono aumentate a dismisura, collocandosi proprio negli ex Stati del blocco sovietico e in quelli satelliti, garantendo alla Nato (e quindi agli Stati Uniti) una presenza militare senza eguali e la conseguente influenza nelle decisioni politiche dei vari stati. Territori ritenuti nemici sono stati praticamente assediati da basi Nato create appositamente per poter decidere un futuro del mondo compiacente agli Usa, anche a migliaia di chilometri dagli Usa.

Il 3 gennaio dell’anno appena iniziato un drone colpisce a morte il generale iraniano Qassem Soleimani, mentre si trovava in Iraq. Con lui muoiono anche Abu Mahdi al-Muhandis, comandante di Al-Hashd Al-Sha’bi, le Forze di Mobilitazioni Popolari irakene (e non delle Brigate Hezbollah, come erroneamente è stato spesso riportato dai media) e altri cinque combattenti. Qualche ora dopo l’attentato mortale il Pentagono rivendica l’omicidio, ripetendo dinamiche tipiche di un gruppo terroristico qualsiasi.

Soleimani era famoso e amato particolarmente per essere stato il generale col compito di dirigere le operazioni estere, compito che ha assunto specie dall’indomani della fine miserevole fatta fare a Saddam Hussein.

Ma Soleimani è stato, soprattutto, l’uomo che ha condotto le principali operazioni contro l’Isis, operazioni – vale la pena ricordarlo – che hanno permesso alla Siria di liberarsi del mostro terrorista e hanno garantito la non proliferazione dei terroristi tagliagole in Medio Oriente.

Insomma, in un mondo che afferma di temere come prima cosa il terrorismo dell’Isis ci si aspetterebbe la deplorazione unanime per un atto criminale, attuato violando ogni principio di diritto internazionale.

Ma si sa che il diritto internazionale è una carta che gli Usa hanno adottato in questi anni solo per convenienza, ritenendolo carta straccia ogni volta si palesasse una violazione da parte loro. Parliamo dei medesimi Stati Uniti che stanno buttando alle ortiche ogni relazione politica e diplomatica basata sul multilateralismo.

Washington, con presunzione e convinzione, ha affermato che l’assassinio era un atto dovuto poiché Soleimani stava preparando un attacco contro istituzioni e cittadini americani presenti in Iraq. Quali siano le prove dietro queste affermazioni ovviamente non si sa e d’altronde abbiamo fatto l’abitudine a prove false costruite ad hoc per essere poi smentite, ma solo dopo aver scatenato guerre, assoggettato Paesi e popoli, essersi impossessati delle loro ricchezze.

In realtà i prodromi della situazione odierna sono da registrare nel raid contro le basi dei miliziani sciiti a cui si è accompagnata la protesta dinnanzi all’ambasciata statunitense a Baghdad. Per molti analisti, in realtà, quella statunitense è stata la risposta alle esercitazioni congiunte delle tre marine cinese, russa e iraniana nel Golfo Persico, per nulla gradite in quanto esperimento di alleanza militare alternativa. Per altri si tratterebbe di un’azione da parte di Trump per distogliere l’attenzione dall’impeachment e per altri, addirittura, non è stata una decisione voluta da Trump ma a cui lo ha obbligato il cosiddetto “Deep State”. Noi rimaniamo convinti che in un mondo verso una palese trasformazione sempre più in senso multipolare, gli Stati Uniti ci tengano fortemente a ribadire la loro egemonia militare e la loro presenza capillare nel pianeta.

È notizia del 6 gennaio la grave affermazione del primo ministro iraqueno Adil Abdul-Mahdi e omessa dai principali media occidentali (italiani compresi) secondo cui è stato lo stesso Trump a chiedere al primo ministro di invitare Soleimani a Baghdad e di proporgli una mediazione con l’Arabia Saudita.

«Ha ucciso il mio ospite», avrebbe affermato Adil Abdul-Mahdi, all’apertura della seduta in Parlamento in cui si è deciso di porre fuori dal proprio territorio sovrano tutti gli eserciti stranieri. Con l’atteggiamento tipico dei gangster, Washington ha dunque finto di lavorare per la de-escalation nella regione per scatenare al contrario l’inferno: l’Iran si è detto pronto a voler vendicare il proprio martire e per tutta risposta ha minacciato di uscire fuori dal patto per il nucleare che, in realtà, aveva rispettato fino alla morte di Soleimani nonostante gli Usa ne fossero invece usciti unilateralmente già da parecchio tempo (annullando, tra l’altro, l’ottimo lavoro fatto in questo senso dall’amministrazione precedente).

Una marea umana raramente vista si è riversata in strada per il funerale del generale e persino sua figlia, dal pulpito, ha affermato che i nordamericani devono temere di veder arrivare ogni giorno morti i loro figli che occupano il territorio iraqueno. Una promessa che sinceramente speriamo rimanga frutto della rabbia, se non altro per non scatenare lo spargimento di sangue che già abbiamo visto verificarsi in un passato anche recente in Medio Oriente. Da parte sua Trump ha risposto con la minaccia di colpire 40 siti culturali, facendo intervenire anche l’Unesco a difesa dei siti e più tardi la Cina.

Le reazioni da parte degli altri Stati sono state le più diverse: l’azione omicida ha causato non poco imbarazzo negli Stati alleati, in primis Israele. Netanyahu ha pubblicato un tweet il 6 gennaio in cui dichiarava l’assoluta estraneità di Israele in questo attentanto: «Non è una nostra guerra e non permetteremo di esserne trascinati dentro», ha scritto il Primo Ministro israeliano.

Poi vi sono stati gli endorsement isolati da parte di uomini politici platealmente legati a Trump e al suo “stile”, come il nostro Matteo Salvini, che con un tweet è riuscito a far infuriare persino moltissimi tra i suoi elettori che si sono sentiti talmente disgustati dalle sue parole di ammirazione dinnanzi all’assassinio di Soleimani da strappare la tessera di partito.

Russia e Cina, unitamente alla maggioranza degli Stati, si sono espresse nettamente contro questa azione, ritenendola una grave violazione e una miccia molto pericolosa. Putin assieme a una delegazione si è personalmente recato al funerale del generale Soleimani, mentre il portavoce cinese ha espresso grossa preoccupazione e ha invitato tutto il mondo al mantenimento della pace, ribadendo che la Cina sempre attuerà in questo senso.

Dall’Unione Europea una prima presa di posizione è arrivata dopo la minaccia di Teheran di uscire dal patto sul nucleare: attraverso un documento congiunto firmato da Merkel, Macron e Johnson, gli E3 hanno chiesto all’Iran di non dare vita a una escalation di violenza e di voler continuare a rispettare i limiti imposti dal patto Jcpoa. Si tratta, evidentemente, di un documento frutto di incontri fra gli Stati europei firmatari del Jcpoa e non una scelta nata da una volontà condivisa dall’intera UE.

Nel nostro Paese per giorni si è chiacchierato circa l’assenza del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che al momento della crisi si trovava in Spagna in vacanza. Solo il 6 gennaio, durante una conferenza stampa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha riferito di essersi sentito col suo pari iraqueno, ribadendo il rapporto di amicizia con l’Iran ma ha aggiunto che i nostri contingenti sosterranno le operazioni di “pace”. Peraltro si infittisce il “giallo” dei droni che hanno ammazzato Soleimani: secondo una ricostruzione essi sarebbero partiti dalla base Nato di Sigonella, in Sicilia, esponendo il nostro Paese alla pericolosità di un conflitto che non ci vede protagonisti.

Ancora una volta, dunque, più di qualsiasi altro Paese europeo con basi Nato, l’Italia rischia di più, in barba alla Costituzione che “ripudia la guerra” e alla volontà dei cittadini italiani che si espressero contro il nucleare. Sono più di 150 le basi Nato presenti sul nostro territorio, con un quantitativo impressionante di ordigni nucleari. L’elemento che lascia esterrefatti è la totale assenza nelle decisioni da parte del nostro Governo, che parrebbe conoscere i particolari a fatti conclusi (sebbene sia Conte che Di Maio continuino a negare l’uso delle basi in Italia per le circostanze del 3 gennaio, si sono registrati stati di massima allerta nelle basi, specie ad Aviano e nella già citata Sigonella).

Particolarmente confusa è stata la narrazione da parte dei media nostrani. Si è in effetti assistito a un perfetto caso di informazione menzognera che, dettata da ignoranza o da malafede, non ha permesso al grande pubblico di farsi un’idea ragionata sugli eventi. Riguardo al giudizio su Soleimani, invece, a parte qualche rara eccezione rappresentata per lo più dai piccoli partiti comunisti e da qualche autore indipendente, si è alzato un unico coro, da destra a sinistra, da Meloni e Salvini a Zingaretti e Renzi, passando per i “pasionarios” Vauro e Strada in appoggio agli Usa.

In molti si sono chiesti se questo fosse il preludio di una guerra mondiale (ricordiamoci le minacce dell’Iran ad Israele sulla base del suo presunto coinvolgimento, i tweet notturni di Trump, gli altri due attentati a Baghdad nel giro di poche ore dal primo). Ci sentiamo di poter affermare che nessuna delle potenze alternative agli Stati Uniti è al momento nelle condizioni di affrontare uno scontro globale. Ma, ciò che è più importante, dubitiamo fortemente possa volerlo. La Cina in particolare promuove una idea di mondo che nulla ha a che vedere con una guerra per garantirsi l’egemonia o spartirsi il mondo in aree di influenza: questo per dire che chi ancora propone schemi passati, come il bipolarismo o la guerra fredda, non ha compreso il mondo alla fine del primo ventennio del 2000.

Al contrario: si dovrebbe sperare che le forze estremamente inclusive di Russia e Cina possano, in questo caso, porre un freno anche a una possibile guerra regionale. inoltre le enormi e diffuse proteste, comprese quelle avute luogo negli Usa, contro l’operazione del Pentagono, potrebbero riuscire una volta per tutte a sortire l’effetto contrario rispetto agli atti violenti del passato, in cui l’esportazione di democrazia per favorire un regime change rispondente ai dettami di Washington era in fondo visto di buon occhio da larga parte della popolazione nordamericana. I dati di vari sondaggi ci rassicurano su questo aspetto e c’è da augurarsi corrispondano al vero.

Le varie guerre scatenate dagli Usa, dai democratici e dai repubblicani più o meno in egual misura a parte qualche eccezione, hanno lacerato il mondo, prodotto crisi umanitarie e governative (si veda la Libia) ed effetti di risacca pericolosissimi nei Paesi vicini.

Intanto, nel momento in cui scriviamo avvengono ancora fatti sconcertanti: da un lato il comandante della missione militare speciale degli Stati Uniti in Iraq, William Seely, ha prodotto un documento indirizzato al capo del Comando Operazioni Congiunte dell’Iraq in cui riferiva il prossimo ritiro degli effettivi, così come da espresso ordine iraqueno. Ma il Segretario della Difesa degli Usa, Mark Esper, ha negato questa ipotesi e invalidato il documento.

Contemporaneamente la Cina ha offerto il proprio aiuto militare all’Iraq in caso di attacco, probabilmente come deterrente ad altre minacce. E infine è di stamattina la notizia del ritiro unilaterale delle truppe tedesche in Iraq. Si palesa sempre più la possibilità di riposizionamento delle truppe nordamericane più che un abbandono dei territori.

Fra i cambiamenti prodotti da questo stanco mondo in evoluzione non guasterebbe una rivisitazione dei rapporti con gli Usa, per il bene e la pace di tutti.

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