«Se un genitore picchia il figlio con una cintura non commette un abuso di mezzi di correzione, ma il reato, più grave, di lesioni volontarie». Lo ha stabilito il tribunale di Torino nel condannare una donna di origine straniera a quattro mesi di reclusione. La condanna nei confronti della donna risale ai fatti avvenuti nel 2011, quando la vittima in questione (sua figlia appunto), aveva solo quindici anni.
Ad accorgersi delle violenza e delle sevizie fu il personale della scuola frequentata dalla ragazza che, all’epoca venne accompagnata all’ospedale Regina Margherita dal preside dell’istituto.
I medici che la visitarono riscontrarono numerosi lividi giudicati guaribili in sette giorni. La quindicenne, inizialmente denunciò le sevizie consumate tra le mura di casa, ma poco dopo ritrattò tutto. La madre, invece, si giustificò descrivendo il comportamento della figlia descrivendola come «sregolata» e «disubbidiente» che «per ottenere dei soldi aveva mentito sull’esistenza di una gita scolastica», ma di fronte ai rimproveri, la ragazza avrebbe spintonato la madre che a sua volta, «in un impeto d’ira», la picchiò con la cinta.
Secondo il giudice, Federica Florio, «a nulla valgono eventuali atteggiamenti aggressivi e/o provocatori della minore» La cinghia, inoltre, è «uno strumento potenzialmente molto dannoso, emotivamente di grosso impatto, certamente non educativo». Si tratta di un «mezzo non consentito» e, quindi, la vicenda non rientra nell’abuso dei mezzi di correzione, reato per il quale la pubblica accusa aveva chiesto un mese di carcere ma di reato più grave di lesioni. La donna, a cui il tribunale ha negato la condizionale, ora dovrà scontare come detto, quattro mesi di reclusione.