Scritto da Gabriele Richetti
Torino vanta, nel corso della sua millenaria storia, decine di amori romanzeschi, passionali, alcuni addirittura al limite della legalità e spesso sfociati in pene più o meno severe.
La relazione di cui leggerete tra poco non può essere definita illegale in senso stretto. Tuttavia, coinvolse le persone sbagliate nel momento sbagliato, lasciando dietro di sé una scia di morti misteriose e condanne esemplari.
Tutto comincia nell’odierna Piazza San Carlo, alla luce fioca dei lampioni del XVII secolo.
Due “ottimi” vicini di casa
Proprio su Piazza San Carlo, nel 1666, si affacciavano due palazzi nobiliari.
Nel primo abitava il marchese di Fleury, nel secondo una marchesa – che le cronache del tempo descrivono come bellissima – della quale si era profondamente innamorato persino il giovanissimo duca Carlo Emanuele II di Savoia. Ricambiato? Nessuno può dirlo. Lo storico Luigi Cibrario però ci fornisce un indizio, riferendosi al duca come «giovane d’anni ed anche in ciò di giudizio».
Sta di fatto che la marchesa era divenuta in poco tempo l’amante del sovrano.
Accecato dalla bellezza della vicina di casa, il marchese di Fleury, nonostante avesse ricevuto dalla corona diversi benefici, ebbe la folle idea di competere con il duca nella conquista della bella madama.
Scrive ancora il Cibrario: «La passione prevalse, né punto crudele si mostrò la bella dama al novello adoratore. Anzi, fatto un buco nel muro divisorio si vedeano e stavano insieme a loro grand’agio. Con quell’espediente, avevano reso i loro due appartamenti comunicanti, celando il buco, presso un armadio, con il drappeggio d’una tenda».
Entra in scena Francesco Cornavin
Fin qui tutto normale, diremmo noi.
Se non fosse che il trucco venne ben presto scoperto da uno staffiere francese, tale Francesco Cornavin, che – essendo al servizio della marchesa – ingenuamente pensò di poter trarre beneficio dalla faccenda, spifferando il tutto al duca Carlo Emanuele II.
La fortuna non era evidentemente dalla sua parte.
Arrivato a Palazzo Reale, non trovò il duca e si dovette accontentare di raccontare il tutto al primo paggio reale, il conte Caresana, pregandolo di riferire tutto al sovrano. Il conte, tuttavia, da buon servitore non pensò minimamente di raccontare al duca una così scomoda vicenda, che tra l’altro interessava la favorita tra le sue amanti. Prestare poi attenzione a ciò che gli veniva raccontato da un semplice staffiere? Impensabile.
Un cadavere ripescato nella Stura
Le cose andarono come dovevano andare.
Pochi giorni dopo, sulle rive della Stura, venne ritrovato il cadavere di un uomo. Presentava il foro di un colpo di pistola in prossimità dell’ascella e dei colpi di arma da taglio sul collo. Inutile dire di chi si trattava: era il corpo di Francesco Cornavin, di professione staffiere.
I colpi di scena non finiscono qui.
Il duca Carlo Emanuele II, giovane sì come dice il Cibrario, ma non ingenuo, si stupì grandemente che fosse stato ucciso uno staffiere al servizio della marchesa sua amante e approfondì i fatti. Dopo qualche indagine emerse che il Cornavin era stato arrestato sotto gli occhi di tutti, proprio in Piazza San Carlo, dagli sgherri del marchese di Fleury, per poi essere ucciso poco fuori Torino.
Carlo Emanuele II non perdonò la mancanza di rispetto del marchese, colpevole non solo di aver insidiato la favorita reale, ma altresì di essersi fatto giustizia da solo verso un umile (sebbene pettegolo) staffiere.
Giustizia è fatta
Senza badare a titoli nobiliari e senza favoritismi di alcun tipo, gli uccisori materiali del Cornavin furono condannati a morte, mentre il marchese di Fleury venne condannato al carcere a vita. Sempre citando il Cibrario, pur non essendo ancora stata abolita «la turpe usanza, per cui talvolta il principe, disagiato sempre di moneta sonante, permetteva ai condannati di ricomprarsi per danaro da ogni pena», il duca rifiutò i centomila scudi offerti dal Fleury alla corona come prezzo per la propria libertà.
Tale rifiuto fu ben visto dal popolo, che molto apprezzò l’integrità d’animo del sovrano.
Il duca non dimenticò però la clemenza, scrivendo di proprio pugno una lettera al marchese, con la quale commutava la pena del carcere a vita con l’esilio perpetuo dai territori della Corona, gesto che venne evidenziato ancora una volta dal Cibrario come «monumento d’animo veramente regio, degno d’essere conservato».
Ecco un estratto della lettera: «Voglio che voi sappiate che tutte le ricchezze del mondo non potrebbero bastare a rendervi la libertà, né fare in me la minima impressione. Perciò ricuso di rendervela al prezzo che mi offrite. Ma non posso ricusare alla mia bontà di continuarvene gli effetti. […] Vi fo dunque sortir di prigione, comandandovi un esilio perpetuo da’ miei Stati».