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domenica, 8 Settembre 2024

Partiti personali e crisi della democrazia

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

di Giorgio Merlo

Il dibattito sulla trasformazione progressiva dei partiti da strumenti democratici, seppur imperfetti, a strumenti nelle mani del leader di partito di turno e’ quantomai attuale e moderno. Anche se quasi tutti lo negano, formalmente e a parole, di fatto e’ diventata una realta’ concreta.
E’ questo e’ una delle tante eredita’ che il ventennio berlusconiano ha prodotto e tramandato. L’ormai storica e datata “discesa in campo” di Berlusconi nel lontano ’94, ha innescato un processo politico e culturale che ha contagiato, nel bene e nel male, l’intera politica italiana. E il tema del “partito personale” ora e’ diventato un fatto esaminato e valutato da politologi, osservatori e commentatori di cose politiche. “Partiti personali”, o “partiti del leader”, o “democrazia del leader”. Sono alcuni titoli di libri, e definizioni, ormai celebri che riassumono in modo scientifico e realistico cos’e’ la politica oggi. Certo, il tutto e’ anche il prodotto di una evoluzione della politica contemporanea.  Il ruolo del leader, o del “capo”, come lo definiva con efficacia alcuni anni fa Mino Martinazzoli, non e’ nient’altro che la trasformazione radicale di questi strumenti che restano comunque decisivi ed essenziali per garantire e conservare la nostra democrazia. Ma la personalizzazione della politica non puo’ diventare la soluzione obbligatoria ed unica alla crescente diffidenza della pubblica
opinione nei confronti dei partiti e della stessa politica. Personalizzazione che, se unita ad una crescente e quasi irreversibile spettacolarizzazione, crea una miscela esplosiva che rischia di minare alla radice la stessa credibilita’ delle nostre istituzioni democratiche e renderle piu’ fragili.
Ecco perche’, al di la’ delle mode, della cronica prassi tutta italiana di “correre in soccorso del vincitore” e di assecondare la tentazione – cosiddetta moderna – di ridurre la politica ad una perenne sorta di “democrazia dell’applauso”, io credo che vada conservata e consolidata la cultura democratica anche e soprattutto all’interno dei partiti. Diceva il mio vecchio maestro Carlo Donat-Cattin che si capisce se un partito e’ realmente democratico da come il suo gruppo dirigente tratta e considera le minoranze. Che, detto tra di noi, non possono, comunque sia, ridursi ad una opposizione pregiudiziale e permanente all’interno dei rispettivi partiti ma devono contribuire ad elaborare la strategia complessiva del partito attraverso il metodo tradizionale del confronto e del dibattito senza rinunciare, pero’, alle proprie idee. Ma, al di la’ di ogni polemica, e’ talmente
evidente e palese che oggi le cosiddette “minoranze” nei vari partiti sono perlopiu’ gruppi, persone e filoni culturali o da licenziare, o da zittire, o da ridicolizzare o da espellere. Ed e’ proprio da questi atteggiamenti concreti e persin plateali che possiamo tranquillamente arrivare alla conclusione che oggi i partiti italiani, quasi tutti i partiti italiani, soffrono da tempo di questo “deficit democratico”. E proprio a questo deficit democratico va posto un serio rimedio. Senza ipocrisia e senza alimentare polemiche stucchevoli e artificiose. E’ sufficiente, al riguardo, far propri i principi democratici basilari che hanno caratterizzato i partiti democratici del passato per evitare scorciatoie plebiscitarie, derive autoritarie e tentazioni presidenzialiste.
E quindi, un partito di “liberi e forti” e’ sempre necessario per battere l’eccessiva personalizzazione della politica. In secondo luogo un partito “plurale” per evitare che si affermi un “pensiero unico”, diretta emanazione del “capo” di turno, anche se oggi nei partiti personali e’ del tutto scomparsa ogni cultura politica perche’ il tutto si basa sul gradimento mediatico del leader. E quindi pieno riconoscimento delle componenti, delle aree o delle correnti che sono una ricchezza e non sono mai un peso. E, in ultimo, un partito che non si riduca ad essere solo un “cartello elettorale” utile per la continua propaganda ma del tutto insignificante ai fini di una opportuna e necessaria elaborazione e progettualita’ politica.
Per questi motivi, attorno al tema dei ” partiti personali” e dei “partiti del leader” entrano in gioco non soltanto i giudizi politici sui singoli partiti ma, al contrario, il destino, la natura e il profilo stesso della democrazia contemporanea.

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