Uomo forte cercasi. Con idee chiare, soluzioni pronte, capacità di scelta, di mediazione e decisione. C’è ben altro della nostalgia di un regima totalitarista nella richiesta di un uomo forte al comando del Paese, emersa dai sondaggi recenti. Se gli intellettuali puntano il dito su una presunta amnesia popolare nei confronti dei tempi bui, di quando “c’era Lui”, se ci si straccia le vesti urlando allo scandalo e alla paura di un rigurgito fascista pronto a soffocarci tutti in un onda maleodorante, forse non si è compreso come l’emergenza reale non sia nel revisionismo quanto nella scarsa conoscenza e nell’incattivirsi delle masse, senza lavoro, fragili, con un welfare spesso non sufficiente. L’uomo forte riporta a storie distanti e inelaborate, e le frettolose conclusioni inducono a fraintendimenti. Il bisogno di guida degli italiani va ben oltre ed è molto più semplice, in un Paese nel quale la politica dai cittadini è vissuta essenzialmente senza partecipazione ma col desiderio di delegare ad altri, scelti con il voto, la soluzione dei problemi. Con forza e determinazione. In queste settimane va in scena in Emilia Romagna una campagna elettorale originale e per molti aspetti inedita: un vero ring chiuso tra i confini regionali dove i due maschi alfa, con veemenza taurina, si scontrano a colpi di testosterone per affermarsi nell’urna. Stefano Bonaccini, forte fisicamente e vincente su una patologia cardiaca da lui stesso ammessa: collo largo esposto dalla camicia aperta, tradisce allenamenti in palestra e forza, quella espressa dalla gestualità, dalla postura, dalle parole, dal tono mai sopra le righe ma fermo. Una sua fotografia davanti la mappa della Regione Emilia Romagna, a braccia incrociate sul petto, vuol dire a Salvini “qui non si passa”, e agli emiliani “vi difendo”. Matteo Salvini. Che si scontra come un toro nell’arena tenendo a bada l’avversario a modo suo, con slogan e fisicità. La candidata Borgonzoni, cosa fa?
Cristopher Cepernich, sociologo della comunicazione, facciamo un passo indietro e esaminiamo tutto. Uomo forte: Amnesia? Nostalgia? La ricerca di un condottiero, la sua forza sono davvero riconducibile a un regime?
Credo che dai sondaggi nasca un equivoco. Quando si parla di uomo forte la nostra immaginazione va immediatamente alle esperienze totalitarie, ma non credo che in Italia quando si parla di “uomo forte” si intenda la nostalgia di un totalitarismo che era frutto di un’altra epoca, di un’altra storia, di altre politiche storiche, economiche e sociali. Significa piuttosto che l’italiano quando vota, attribuisce una delega al politico.
Una delega è in contrapposizione alla partecipazione della politica del cittadino?
L’italiano, a me pare che non voglia partecipare affatto, che voti qualcuno per delegare a realizzare in un tempo determinato ciò che c’è da fare e che decida per lui. Non vuole un dittatore, né che si stia fuori dalle regole, né qualcuno che stia fuori dalle logiche democratiche ma chi gli tolga i problemi di dosso. La delega verso l’uomo forte è verso il decisionista, colui il quale anziché contemplare fa, che trova soluzioni per i problemi concreti. Ho l’impressione che l’elettore una volta attribuita quella delega voglia disinteressarsi delle cose. Come a dire “Voglio che trovi la soluzione per me, perché ti ho delegato a farlo con il voto”.
Del resto, con il chirurgo sul tavolo operatorio non si partecipa attivamente all’intervento: gli si delega l’azione per la guarigione.
La metafora rende l’idea: è una forma di anestesia democratica ma molto consapevole. In Italia abbiamo una concezione del tempo molto particolare. Se quel leader deve risolvere i problemi, deve essere forte, cioè deve avere delle leve e degli strumenti per poterlo fare. Non credo che questo sia antidemocrtaico, almeno nell’intento, dell’elettore medio. La retorica del politico che “deve fare”, della concretezza, è qualcosa che torna molto spesso nel dibattito. I cittadini si aspettano concretezza, che è alla base della soluzione dei loro problemi. Non voglio sapere come o quanto sono difficili i processi democratici, che sono lunghi.
Il tempo della politica è un ostacolo alla realizzazione di quanto l’elettore chiede?
Il cittadino si aspetta che, quando c’è un problema, la soluzione arrivi subito ma il tempo della politica è un tempo di lentezza, di processi, di discussione di contro-argomentazione, di voto alla Camera, al Senato, di rinvii. Per definizione la democrazia ha una lentezza che è dettata dai suoi processi. L’elettore si aspetta che velocemente il problema venga risolto, come farebbe il consiglio di amministrazione di un’azienda, che si inventa prontamente una strategia per aggredire il mercato in base al nuovo prodotto da lanciare.
Dunque, Berlusconi nel 1994 aveva visto lungo.
Berlusconi interpretò proprio questo sentire introducendo il modello aziendalistico della politica: il ragionamento è che qualcuno si faccia carico dei problemi e li risolva in cambio di una delega che arriva nel giorno delle elezioni. Il cittadino, si occupa di politica quando vota, dopo di che, consegna il problema che da quel momento diventa di qualcun altro. Nella storia ci sono stati molti esempi: a Craxi fu rimproverato di essere un uomo forte. Era un decisionista, lo si accusava di essere non abbastanza condiviso all’interno del partito, nella satira vignettistica la forza di leder erano disegnati da Forattini con gli stivali di Mussolini. Quella dimensione di leadership forte, preponderante che decide, che prende in mano la situazione, arriva un po’ prima di Berlusconi, ed è un modello che quest’ultimo interpreta perfettamente. Al termine di questo processo arriva Salvini che chiede i pieni poteri.
Fu una battuta infelice, o qualcosa di più? Anche in questo caso gli intellettuali accorsero ai paragoni con il Duce, il fascismo…
Non erano i pieni poteri di un dittatore ad essere richiesti, ed è stato più capito dalle persone semplici che non dagli intellettuali che hanno subito inteso il richiamo ai regimi totalitarismi e alla deriva fascista. Per le persone comuni quando si cedono i pieni poteri, significa chiedere i mezzi, chiedere una maggioranza schiacciante, come quella che aveva Berlusconi, che consente di decidere questo sì, questo no. Nave in porto sì, nave in porto no. Che è diverso che stare fuori da un sistema di regole democratico: ci troviamo di fronte a qualcosa di più simulato, una post democrazia, dove è il sistema democratico che in qualche modo incontra queste nuove esigenze degli elettori, fatto di meno processo più azione: questo manda in corto circuito il sistema.
L’ultima delega è quella al premier Conte, la difesa degli italiani, anche la difesa si chiede a un uomo forte…Conte è un uomo forte?
Conte non ha i tratti di una leadership forte, ha i tratti di un uomo di Governo da Prima repubblica, un negoziatore, è per l’appunto un avvocato, è una persona che media e cerca le soluzioni. E’ interessante la veste di uomo forte di Conte nel governo con la Lega, perché lì lui nasce per essere “difensore” , benché le forze politiche che lo sostengono gli dessero un ruolo molto chiaro e di basso profilo. Lui doveva essere il coordinatore del Governo, non il capo del Governo. In una primissima fase lui stava zitto, perché a parlare erano i due vicepremier Salvini e Di Maio. Lui doveva essere il garante del loro governo. Progressivamente, dato che è centrale la necessità della figura di riferimento che non crei anche cognitivamente confusione, il suo ruolo progressivamente è cresciuto, probabilmente lo tesso Premier ha capito che in un contesto politico come il nostro una figura sotterranea, di coordinamento, non ti assicura un futuro, ecco quindi che diventa, o si rappresenta, quale uomo forte.
E i partiti che lo sostenevano e lo sostengono?
Il movimento Cinque Stelle e la Lega erano forti e il premier era debole. Ora la situazione è differente: il Movimento e il Pd sono deboli e lui tende a sembrare più forte.
Così deboli che Zingaretti ha impalmato Conte come espressione massima del centrosinistra?
In questo momento il Pd è l’unico partito di Governo che, seppur debolmente, cresce nei sondaggi: non esprimere però una leadership all’interno per la guida del Paese, indicarne una esterna, è il massimo dell’espressione della propria debolezza. In questo modo Giuseppe Conte ha certo una ciambella di salvataggio.
Guardiamo alle elezioni in Emilia Romagna, dove a contendersi il campo sono due macho. Due uomini figure forti. Nella campagna elettorale di Bonaccini c’è la scelta di non avere accanto i leder del Pd nazionale, contando sulla propria figura: maschia, collo taurino, un impatto molto pugilistico coniugato alla capacità e alla concretezza dei risultati ottenuti. Il suo competitor è Salvini in uno scontro molto “fisico”. La Borgonzoni che fa?
L’assenza di Borgonzoni potrebbe essere il problema di Bonaccini. Lo scontro tra due maschi alfa, potrebbe in qualche modo favorire una candidata donna. Non dimentichiamo che a sinistra c’è più difficoltà a candidare donne di quanto non ne abbia il centrodestra: in Emilia ma anche in Umbria la lega ha candidato donne. Chissà che grazie a questo, la Borgonzoni che sta in effetti fuori dalla campagna elettorale vissuta sui media, non stia costruendo una sua capacità di conquistare uno spazio proprio in virtù del fatto che è una donna, che rappresenta una cosa diversa rispetto alle contrapposizioni maschili hard.
Borgonzoni chiede a Salvini di occuparsi “fisicamente” del competitor, mentre lei va sul territorio a prendere voti?
Di questo potremo aver prova solo dopo il voto ma potrebbe essere un’ipotesi, che non si vede in questo scontro, ma cosa gli elettori stanno guardando noi non lo sappiamo. C’è un’aspettativa di femminilizzazione della politica, e credo che qualcosa si muova. Noi osserviamo la campagna elettorale per come viene vissuta attraverso i media. Che cosa accada quando Borgonzoni va nei paesi, e non a Bologna perché città radicalmente di sinistra, non lo sappiamo. Ci sono aree dove una donna che arriva con un’immagine diversa dalla spacconeria dei due, potrebbe riscontrare interesse a prescindere dal suo valore politico. In un confronto fortemente maschilizzato, non siamo in grado di dire che ruolo lei in questo momento stia giocando.
A Torino, al momento, di forza quanta ce n’è?
Intanto regna una grande confusione su quello che sarà lo scenario futuro, abbiamo una scacchiera sulla quale i pezzi non sono ancora disposti, sembra che tutti stiano pensando a come muoversi. Oggi il Pd parte con le carte migliori in mano. I partiti devono però svolgere un ruolo centrale in tutto questo, la società civile non deve andare a risolvere i problemi politici ma deve fare ciò che sa fare. Mi aspetto che il Pd si attrezzi per incontrare le esigenze della società civile, che sappia leggere in un progetto di città quello che è lo stato attuale e che non per questo debba trovare stampelle improbabili.
Servono i bicipiti o la testa?
Serve il cervello, a Torino, in questo momento. Lo scenario è favorevole a un ritorno del centrosinistra ma è necessario saper guardare dove sta andando la città, ascoltare le necessità. Teniamo conto che non è più quella del 2016. I modelli con cui troverà nuove identità e nuovi percorsi sono diversi rispetto a quelli dei tempi dei sindaci Chiamparino e Fassino. Bisognerà trovare nuove vie per sviluppare il territorio e guardare oltre, questo è un compito che però spetta ai partiti che devono rendersene conto e che interpretino le nuove esigenze.