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mercoledì, 23 Ottobre 2024

La festa di Ognissanti nel torinese

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Scritto da Gabriele Richetti
In viaggio verso le campagne
Torino è oggi una città metropolitana, una città che ha perso con il passare degli anni molte delle tradizioni che da sempre accompagnavano la sua storia. Basta però uscire dalla città di qualche chilometro per immergersi in una realtà atavica, ancora imbevuta di cultura rurale e di una spiritualità sincera, un misto di superstizione e religione tradizionale.
Molte di queste credenze sono profondamente legate al culto dei morti, un legame che accompagnava i contadini di un tempo per tutta la vita. D’altra parte, come scriveva Euclide Milano, quando la Morte entra in una casa di campagna “essa si preannuncia, a detta dei contadini, con segni che ne rivelano l’avvento indeprecabile”.
Il mondo dei morti e quello dei vivi – costantemente collegati attraverso le preghiere – entravano però direttamente in contatto la notte del 1° novembre, una notte in cui certi riti, per evitare strane sorprese, devono essere rispettati ancora oggi come un tempo.
Il giorno di Ognissanti
Il giorno di Ognissanti era considerato, nelle campagne torinesi, una grande festa della comunità: dopo la funzione religiosa, le famiglie si recavano insieme al cimitero del paese, fermandosi davanti a tutte le lapidi per ricordare ad alta voce pregi e difetti del caro defunto che lì riposava.
Una volta tornati nelle proprie case, i contadini recitavano il rosario in forma completa e si preparavano alla notte più lugubre dell’anno, ossia le ore di buio che separavano quella giornata di “festa” dal giorno successivo, in cui si sarebbero celebrato il ricordo di tutti i defunti.
La notte del 1° novembre
Prima di coricarsi, in famiglia ci si raccoglieva nelle stalle tiepide o davanti al fuoco del camino per consumare castagne bollite e qualche bicchiere di vino. Quei momenti erano riempiti dai racconti legati al culto dei morti, leggende che venivano tramandate oralmente di padre in figlio e che l’anno successivo sarebbero state riproposte nella stessa occasione.
In molte zone del torinese e del Piemonte i bambini si chiudevano gli occhi non appena veniva loro raccontato delle processioni infernali che avrebbero avuto luogo quella notte: i defunti sarebbero usciti dai cimiteri per formare lunghe e tristi processioni, illuminate dalle fiammelle scaturite magicamente dai loro corpi.
In Valsesia si pensava che queste processioni iniziassero dai ghiacciai del Monte Rosa e che la fiammella fosse il dito mignolo del defunto illuminato: allora ecco che, quando qualcuno avvistava delle luci in lontananza sui nevai proprio quella notte, correva lesto in casa sprangando le finestre. Questa credenza ha dato origine alla Processione del Rosario Fiorito, una tradizione degli abitanti di Alagna fin dal 1689, poi sospesa ma ricominciata negli anni ’80: durante la processione sui ghiacciai, gli abitanti dei villaggi chiedevano alla Vergine di Maria di pregare per i montanari che su quelle nevi erano morti, dispersi o caduti nei crepacci senza poter ricevere degna sepoltura.
Il banchetto dei morti
Si pensava che durante la notte i defunti tornassero nelle case che avevano abitato da vivi, anche se soltanto per qualche ora. Ecco che la famiglia allora si preparava (e preparava la casa) per accogliere il parente proveniente dall’aldilà.
Per le strade del paese, dopo il tramonto, non si vedeva più nessuno: le strade erano lasciate libere per chi stava per arrivare dal mondo dei morti. Si andava a dormire presto, lasciando la tavola imbandita per il trapassato, che avrebbe avuto così tempo e cibo per rifocillarsi dopo il lungo viaggio. Castagne bollite, pane con uvetta, fagioli, latte caldo, vino e altri semplici cibi venivano lasciati sul tavolo della cucina, apparecchiato per una persona. Oltre a piatti, posate e bicchieri, si preparava vicino al fuoco un secchio di acqua, dove l’anima del defunto si sarebbe lavata prima di tornare nell’altro mondo.
L’attenzione verso il defunto non si esauriva in cucina: in molte zone del Piemonte ci si alzava prima dell’alba, così da lasciare il letto ancora caldo per il defunto, che dopo aver mangiato avrebbe potuto riposarsi. Ancora, in alcune campagne si usava dormire rannicchiati da un lato del letto: a fianco l’anima del defunto avrebbe trovato spazio per distendersi se lo avesse desiderato. Il giorno successivo, il pavimento della cucina non doveva essere scopato, per non rischiare di scopare via anche l’anima del morto nel caso in cui si fosse attardata a tavola.
La leggenda vuole che…
Secondo la leggenda, l’anima, durante la cena, avrebbe predetto il destino dei familiari ancora in vita. Ovviamente, era un momento intimamente segreto e nessuno avrebbe dovuto origliare le profezie del parente.
Pare che in provincia di Verbania, nel secolo scorso, una ragazzina – incuriosita dalle voci che provenivano dalla cucina – fosse rimasta ad ascoltarle, accucciata dietro la porta. Alla fine del banchetto, un’anima, non sapendo dove riporre il coltello usato per tagliare il pane, lo scagliò contro la porta, conficcandolo nella fronte della curiosa fanciulla.
L’indomani la ragazzina riprese la sua vita normalmente, ma non ci fu modo di estrarle il coltello dalla fronte. Trascorse così un anno.
La notte successiva di Ognissanti, su suggerimento del padre, la fanciulla si rimise dietro la porta della cucina. Una volta arrivati gli spiriti, non trovando il coltello per il pane, si ricordarono di averlo scagliato contro la porta l’anno prima. Senza una parola, un’anima si avvicinò alla ragazza ed estrasse il coltello dalla fronte della poveretta. Tutto tornò dunque alla normalità: la lezione era servita.

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