Una collega di un importante quotidiano nazionale mi ha chiesto, come vetero cronista di Torino, quale poteva essere la reazione emotiva dei torinesi di fronte alla notizia che nei prossimi giorni sarà rimossa dalla storica facciata del Lingotto la scritta Fiat per essere sostituita con l’acronimo del nuovo gruppo nato dalla fusione con la Crysler e che avrà sede legale a Londra.
Sarebbe presuntuoso pretendere di poter esprimere il pensiero dei miei concittadini. In sintesi e a caldo ho espresso il mio, anche se ci riserviamo come Nuovasocietà di tornare prossimamente sull’argomento.
I tempi in cui molti torinesi (non solo lavoratori Fiat) si identificavano con la Casa regnante come nell’Ottocento i piemontesi si sentivano sudditi dei Savoia sono passati da parecchi lustri. Ciò non significa negare l’egemonia che la Fiat ha esercitato per oltre un secolo in tutti settori della città, in fabbrica e al di fuori, sul piano economico, sociale, culturale e sulle istituzioni pubbliche, non esclusa la magistratura.
La storia della Fiat è un monumento del capitalismo italiano nel quale trovi di tutto, dal paternalismo, al becerismo, all’autoritarismo. Sin dai primi decenni di vita ebbe a che fare con la giustizia, sempre riuscendo a rabberciare una via d’uscita, basti pensare al primo processo a Giovanni Agnelli il nonno per aggiotaggio: correva l’anno 1909. E a seguire la compromissione con il Fascismo e nel secondo dopoguerra la politica vallettiana antisindacale, con i licenziamenti per rappresaglia, i reparti confino (OSR), lo spionaggio organizzato con oltre 350 mila persone schedate, il premio antisciopero, il sindacato giallo, il sostegno a provocatori come Luigi Cavallo ed Edgardo Sogno, e l’elenco potrebbe continuare.
Oggi però ritengo che la stragrande maggioranza dei torinesi più che versare una lacrima sulla rimozione dell’insegna al Lingotto (tra l’altro fu il primo stabilimento che vide l’organizzazione del lavoro sul modello fordista e che venne chiamato dagli operai Porto Longone) ha motivo di grandi preoccupazioni per la politica che l’ex Fiat sta perseguendo sotto la guida dell’uomo che non usa indossare la giacca.
Del piano Fiat Italia del 2010, che prevedeva venti miliardi di investimenti, non si è più sentito parlare, nell’indifferenza del governo e degli enti locali. In compenso Matteo Renzi è andato a Detroit a rendere omaggio a Sergio Marchionne per i progetti che il cittadino multinazionale (canadese, lussemburghese, svizzero e statunitense) intende realizzare.
Nel frattempo a Mirafiori continua la cassa integrazione.