Il referendum promosso dai lavoratori del centro di produzione Rai di Torino, con cui è stata bocciata una commessa per la realizzazione di una fiction, ha scatenato il livore dei migliori vocalizzi del benpensantismo nostrano. Il tutto finemente orchestrato da Rai e Comune di Torino uniti nel deprecare quel rifiuto, forti del popolare motto che “chi dice no al lavoro, dà un calcio al pane“.
Allineate e compatte le voci successive, quasi tutte a digiuno di esperienza diretta di quello specifico lavoro, ma perennemente infatuate dalla certezza che la verità è soltanto di chi paga. Una tesi che ha fatto del nostro Paese, per un terzo sotto il controllo della criminalità organizzata, il paradiso di “pecunia non olet”. Ragion per cui, come in una messa cantata, gli sputasentenze di professione non hanno esitato a divulgare le cifre mirabolanti rifiutate da quegli “sfaccendati” lavoratori di un Centro di produzione Rai costretto da anni ad andare con il cappello in mano per sopravvivere.
Non una parola sul pregresso, naturalmente, sulle politiche industriali a singhiozzo dell’azienda, sugli errori e orrori di programmazione, sulla gestione del personale. Insomma, una ricostruzione da pensiero unico per non disturbare il manovratore, in cui il commento assordante diventa sentenza, da sputare, appunto, addosso a chi chiede anche di valutare le condizioni di lavoro in relazione a tempi e qualità stessi del lavoro. Un modo per non vedere anche abbassarsi pericolosamente l’asticella sulla dignità del lavoro. Come a dire l’anticamera della schiavitù. Non fisica, sia chiaro, da quella ci si può ribellare, ma mentale, che piega e spezza la volontà dentro e che ti porta poi ad accettare di tutto e a non riconoscere infine il diritto a dare un senso alla propria vita.
Gli sputasentenze
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