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sabato, 27 Luglio 2024

Ecco la lettera del Procuratore Saluzzo ad Appendino e al Consiglio comunale

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

Al Signor Sindaco della Città di Torino Dr.ssa Chiara Appendino

Al Signor Presidente del Consiglio Comunale di Torino Dr. Fabio Versaci

 
Ho riflettuto alcuni giorni sulla opportunità e necessità di una presa di posizione, mia e del mio ufficio, su alcune affermazioni che, stando a quanto pubblicato dai quotidiani “La Stampa” del 6 e 7 dicembre 2016 e “La Repubblica” del 6 dicembre 2016, sarebbero state pronunciate, nell’aula del Consiglio Comunale di Torino, dalla Consigliera Carlotta Tevere, Presidente della Commissione Legalità.

Ho deciso che un chiarimento si impone.

Ovviamente, nutro e riservo il massimo rispetto alla espressione di valutazioni politiche, alla libertà d’opinione e alle persone che rivestono ruoli politici, ancor più se elettive.

Qui, tuttavia, non si tratta affatto di dolersi di opinioni politiche ma di esprimere sconcerto e totale dissenso rispetto a valutazioni pronunciate in una sede istituzionale, nel corso di una seduta ufficiale e nell’ambito di un dibattito pubblico. Occasioni e sedi nelle quali si sono prese “le difese”, da parte della Consigliera Tevere, delle persone condannate, con la sentenza della Corte d’appello di Torino, in data 17.11.2016, per i gravi fatti di violenza, lesioni e altro, commessi dagli imputati nei confronti degli appartenenti alle Forze dell’Ordine ed anche di privati cittadini, che si trovavano sui luoghi degli scontri, il solo motivo di prestare la loro attività lavorativa.

Il conteso era quello della contrapposizione della parte non pacifica (e non pacifista) del Movimento NO TAV nei confronti di coloro che erano chiamati a garantire l’ordine pubblico e l’esecuzione di provvedimenti legittimi dell’Autorità dello Stato, azioni sviluppatesi nei giorni del 27 giugno e del 3 luglio 2011.

L’espressione di solidarietà non può essere ridotta ad una presa di “simpatia” per i manifestanti violenti, le cui singole responsabilità sono state oggetto del giudizio di un Tribunale di primo grado e, poi, della Corte di appello; essa facilmente si traduce in solidarietà per i reati commessi e questo, francamente, mi sembra assai grave.

Ero già intervenuto, unitamente al Procuratore della Repubblica di Torino, Armando Spataro, con una missiva (per la cui pubblicazione integrale ringrazio, ancora una volta, il direttore del “La Stampa”), per rispondere alle ricostruzioni e valutazioni assolutamente errate e “fuorvianti” di un noto intellettuale che aveva tentato di fornire giustificazioni e ragioni alle azioni violente di soggetti che hanno calcato la scena della vicenda TAV e NO TAV per anni.

E torno sull’argomento per ribadire – anche a tutela della funzione giudiziaria, sia requirente che giudicante – che i magistrati non esercitano opzioni che non siano quelle dell’applicazione della legge penale, sempre e in ogni caso, in presenza di fatti di reato. Senza aree di esenzione possibili, immaginabili, e, forse, da qualcuno auspicate; ed assolutamente senza opzioni di natura politica.

I reati sono reati. Chi commette reati deve essere assoggettato a sanzione. Chi viola il codice penale subisce, come qualunque cittadino (nessuno escluso, neppure i magistrati), le conseguenze per la condotta che ha volontariamente tenuto e per le conseguenze che ne derivano.

La manifestazione di solidarietà per i condannati per sì reati gravi, che mettono in pericolo il bene e i valori della convivenza pacifica, il rispetto delle leggi, l’incolumità delle persone (anche se quelle persone sono poliziotti, carabinieri o finanzieri: che anch’essi hanno diritto alla stessa tutela che deve essere assicurata agli altri cittadini), l’esecuzione di provvedimenti legittimi, non può non essere letta che come “giustificazione” dei comportamenti tenuti e del reato stesso. Ancor più grave se si considera che la maggior parte di quegli individui aveva “travisato”, avendo precostituito una dotazione di mezzi (artifici, esplosivi, mazze, pietre e altro) di offesa, avendo agito con tecnica e tattica “militare”.

Sembra dimenticarsi che i fatti oggetto del processo non erano affatto consistiti in resistenza passiva, in “disobbedienza civile”, in manifestazioni pacifiche (infatti, fin dalla impostazione iniziale della Procura della Repubblica di Torino, non un solo reato è stato contestato ai manifestanti “pacifici”) ma avevano rappresentato uno dei “culmini” della lotta violenta non tanto contro l’opera quanto contro chi aveva il dovere (sottolineo, il dovere) e l’obbligo di impedire azioni di contrasto, se portate con la violenza fisica, con le minacce ed i danneggiamenti.

Lo Stato di diritto si fonda sulla certezza della previsione punitiva e sulla correlativa certezza che gli organi inquirenti interverranno – sempre e nei confronti di chiunque – per l’accertamento dei reati e delle singole responsabilità, per poi sottoporre al vaglio del Giudice le ipotesi di accusa e ottenerne o meno una verifica.

Qui la verifica si è ottenuta in due successivi gradi di giudizio e appare, perciò, estremamente “destabilizzante” la condotta di chi, investito di funzioni pubbliche, rappresentante dei cittadini ed in una sede istituzionale si spinga alla solidarietà e alla giustificazione dei reati accertati.

Certo, si potrà dire che la sentenza non è ancora definitiva e che, molto probabilmente, vi sarà un ulteriore giudizio dalla Corte suprema di cassazione.

Ma non è questo il punto. Per troppo tempo, nel nostro Paese, ci siamo abituati (forse, addirittura, assuefatti) al “linciaggio” delle sentenze appena pronunciate, senza conoscerne motivazioni, dati di fatto, norme applicate. Molti hanno cercato di “tirare” la giustizia al verso opportuno per il proprio tornaconto.

E’ su questa strada che dobbiamo proseguire, delegittimando sia gli organi inquirenti sia, soprattutto, quelli giudicanti? Facendo intendere che le decisioni dei giudici siano orientate ora da uno scopo ora dall’altro?

Non mi pare la strada “illuminata” per convincere i cittadini (già poco inclini) che il servizio giustizia si muove secondo canoni e norme generali e che non asseconda le pulsioni, i desideri, le preferenze di alcuno.

Ho notato che Ella, Sig. Sindaco, ha deplorato l’accaduto, sottolineando anche come la sede non fosse propria per quelle esternazioni. Gliene sono davvero grato, a nome della magistratura inquirente – e non solo – torinese.

Chiedo però, a Lei ed al Sig. Presidente del Consiglio comunale, di farsi interprete, nel Consiglio, di queste mie impressioni e valutazioni. Perché i cittadini (/ed anche i cittadini consiglieri) sappiano che i magistrati non si piegano ad alcuna logica ed emettono le sentenze proprio nel nome del popolo, popolo che a loro chiede imparzialità assoluta e rispetto del principio di eguaglianza e di legalità che si traduce nella eguale soggezione di tutti alla legge.

Invio queste mie riflessioni ai Direttori dei quotidiani che hanno dato spazio alle affermazioni della Consigliera Tevere, con la richiesta di volerne dare conto ai lettori delle testate da Loro dirette.

Mi è gradita l’occasione per i miei migliori saluti, con il mio grazie per l’attenzione.

Francesco Enrico Saluzzo, procuratore generale

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