di Moreno D’Angelo
Dopo la Brexit si è aperta una strada verso una dissoluzione dell’Unione Europea o si potrebbe trattare di una benefica scossa in grado di portare a nuovi equilibri ed a un auspicabile maggiore collegialità tra i suoi Stati membri?
Che l’Unione Europea non fosse molto amata non è certo una novità. Un Unione più economica che politica che è vista come un soggetto centralizzato potente che ha imposto sacrifici, vincoli e che stava per ammazzare uno stato come la Grecia. Ma anche un soggetto capace di sviluppare forti sinergie e sviluppo superiore alla semplice somma delle sue singole nazioni.
Sono drammatiche le conseguenze che si stanno registrando a livello economico e finanziario dopo la vittoria della Brexit da parte di uno stato che, pur non aderendo alla moneta unica, ha ottenuto notevoli agevolazioni. C’è molta sorpresa e incredulità tra i sudditi deIla regina per il voto del referendum che ha portato a questo risultato. Un no all’Europa che è stato frutto di un mix di generica protesta, di orgoglio nazionalistico (che abbondano tra i britannici più anziani) e paure . Insomma una reazione emotiva più che un ragionato rifiuto per uno stato che certo non ha subito i vincoli e i diktat di una troika germanocentrica.
Di fronte ai crolli delle borse in tutta l’Europa e non solo e alle difficoltà economico sociali che si sono aperte molti che hanno votato “leave” ora si dicono sorpresi e forse non si aspettavano nemmeno di vincere, intendendo solo dare un segnale di insoddisfazione, animato in primo luogo dalla paura dell’inarrestabile fenomeno migratorio su cui tanti continuano a speculare e dalle tante sirene populiste. Tra queste si è distinta quella del partito inglese guidato da Nigel Farage (che aveva fino a poco tempo fa le esplicite simpatie di Beppe Grillo). Un Farage che ora ha dovuto con imbarazzo ammettere di aver anche detto bugie pur di animare la piazza contro l’odiata Comunità Europea. Imbarazzo che sta caratterizzando tutte le anime che hanno portato al referendum a partire dal primo ministro David Cameron che ha annunciato le dimissioni ma che ora prende tempo. Tempo che i vertici comunitari non vogliono saperne di aspettare pretendendo una rapida uscita del membro britannico.
Intanto crollano le borse e in particolare i titoli bancari. Perché? Oggi non è più una questione legata ai titoli tossici, ai famosi derivati di cui le banche dovrebbero aver fatto pulizia. La questione centrale resta quella delle sofferenze che persistono dalla crisi del 2008. Una montagna di circa 200 miliardi di crediti che pesano sui bilanci e da cui difficilmente si otterrà qualcosa. Un fenomeno che tocca tanti istituti di credito in tutta Europa e In particolare in Italia. Qui si sono registrati dei picchi di perdite delle quotazioni azionarie da record che hanno colpito colossi come Unicredit. Banche che si dicono solide ma che poco possono contro queste tempeste esterne ed è proprio sugli istituti, ritenuti più deboli, che si scatena la speculazione. Unicredit è ritenuta una banca sistemica (cioè di impatto mondiale) ma da mesi registra un vuoto di potere e incertezze legate ai ritardi con cui si sta procedendo nella sostituzione del suo ex amministratore delegato Federico Ghizzoni.
Non vi è stress test che possa tener conto di questi improvvise bufere esterne. A fronte di queste sono molti gli esperti che ribadiscono la necessità dell’attuazione di pronti meccanismi di garanzia a livello comunitario per fronteggiare queste crisi nelle singole banche.
Intanto tra i soggetti istituzionali che stanno reagendo emerge un quadro politico quanto mai debole: Francois Hollande e Matteo Renzi non sono certo in un momento felice sul piano del consenso interno. Vi sono poi le incertezze legate al quadro confuso che emerge sul fronte della governabilità nel nuovo parlamento spagnolo. Una realtà dove i “populisti di sinistra” di Podemos non hanno sfondato, pur confermando un buon risultato. Anche in Germania si è in attesa di importanti consultazioni politiche.
Il quadro critico dominante di fronte alle politiche di rigore, ai vincoli di bilancio, le paure e il persistere di sacche di disoccupazione e poco sviluppo, in un Europa divisa in due tra gli stati del nord e quelli mediterranei, ha contribuito a far sottovalutare agli occhi di tanti cittadini le potenzialità e il ruolo della Comunità Europea. Un colosso economico ancora troppo debole sul piano politico. Nonostante sia fondamentale il suo contributo come portatore di pace, di moderazione e di diplomazia in un mondo in totale evoluzione sul piano degli equilibri dove resta forte la minaccia terroristica.
Un Europa ora come non mai minacciata da un possibile effetto domino. Questo a cominciare dalla Francia dove Marine Le Pen, leader del Front National, non ha mai nascosto di puntare a un referendum per attuare la FRexit o da quanto auspicano movimenti antieuropeisti come quello guidato da Geert Wilder in Olanda o da Matteo Salvini in Italia.
Gli ottimisti però ritengono che questa crisi potrebbe emergere qualche segnale sul piano dell’intesa tra tutti gli stati e nel far capire quali possano essere le conseguenze di facili proclami animati dai tanti populismi e movimenti xenofobi del vecchio continente. C’è anche chi ha messo in dubbio l’opportunità di referendum su fattore così delicati facilmente strumentalizzabili. Tutto questo non impedisce di poter dire che una Europa meno accentrata nelle decisioni e più elastica nell’imporre i suoi diktat potrebbe essere molto più amata. Milioni di giovani, nati dopo il crollo del muro di Berlino, dimostrano di sentirsi prima di tutto europei a differenza dei loro genitori e nonni più legati a un passato di atavici contrasti e nazionalismi che oggi non portano da nessuna parte se non verso una disgregazione che non conviene a nessuno. Di questo se ne rendono conto anche tanti imprenditori. E non è un caso l’Isis abbia gioito al risultato del referendum sulla Brexit vedendone in questo un chiaro segno di indebolimento sul fronte dei “crociati”. Intanto la Gran Bretagna, centro nevralgico della finanza mondiale (ora non più come un tempo),deve fare i conti con una sterlina ai minimi storici e problemi negli investimenti esteri. Inoltre si è aperto per Londra un rischio concreto: quello di perdere i pezzi come Irlanda del Nord e Scozia. Regni dell’autonomismo che però vogliono restare in Europa. Un segnale per l’Europa del futuro che si vorrebbe più coesa, con meno nazionalismi affiancati dal forte mantenimento delle tante e preziose identità territoriali locali. Sempre più ragazzi oggi comunicano in inglese, viaggiano, sono aperti al mondo sia a livello relazionale che lavorativo. Possono fare oggi il cameriere a Edimburgo e domani il ricercatore a Ginevra passando per corsi di approfondimento a Lyon. E’ insomma un altro mondo portatore di un futuro nuovo. E’ quello che si è espresso per il “remain” in Gran Bretagna. Ma l’Europa deve cambiare passo perché nazionalismi, populismi e ventate xenofobe e razziste continuano a farsi facile gioco delle difficoltà di tante persone, giovani compresi.