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Assange e noi

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

Vi sono tempi in cui più che uno starnuto dovrebbe terrorizzarci il silenzio attorno ai problemi centrali della società. Non che un virus venuto da lontano non debba spaventare, per carità. Ma quando ad esso si accompagna la totale cancellazione dall’agenda della politica l’analisi della fase attuale, interna ed esterna, allora ci si dovrebbe concedere almeno un attimo di pausa e ricordare cosa sta accadendo attorno a noi.

Dallo scoppio dell’emergenza sanitaria in Italia non si sta parlando di altro e, approfittando dell’isteria collettiva generata più dai media che dai dati reali, il mondo della comunicazione ha sferrato un colpo a senso unico rispetto a questioni bollenti di politica internazionale o ha preferito stendere un manto di silenzio.

Eppure di temi da affrontare ce ne sarebbero così tanti da non sapere come metterli in ordine di importanza: dal caso Assange alla guerra che continua in Siria, dal MES alle esercitazioni della Nato nel Mediterraneo, dalle notizie che arrivano dall’America Latina al rafforzamento del rapporto tra India e Usa. E naturalmente dell’attacco politico alla Cina, attraverso notizie false che lo vorrebbero indicare come “stato-untore” volontario, col suo sistema a partito unico così lontano dal nostro.

Tutto passato volontariamente in sordina, non solo a causa di una crisi sanitaria ma per quella che anche ai meno accorti risulta essere una volontà ben precisa: quella di dirigere l’opinione pubblica verso il non-pensiero o verso una unica visione del mondo e delle cose.

Quanto sia pericoloso un atteggiamento di questo tipo è presto detto: prima o poi si uscirà da questa crisi e ci si sentirà di aver perso dei pezzi importantissimi e di esser rimasti indietro. Ovviamente a tutto vantaggio di chi con questa procedura vuole influenzare in un determinato modo la società che leggerà il trafiletto o il pezzo passato in secondo piano.

Quel che affrontiamo è straordinariamente evidente nelle analisi fatte rispetto alla vicenda di Assange, tornata alla ribalta a causa del processo appena iniziato.

Julian Assange è il fondatore di Wikileaks, il sistema tecnologico apparso in rete per la prima volta nel 2006: in quell’occasione venne pubblicato un documento che provava un complotto per assassinare i membri del governo somalo redatto dallo sceicco Hassan Dahir Aweys.

Da lì in poi Wikileaks ha reso note le pratiche non propriamente rispettose della sovranità altrui messe in atto dagli Usa per controllare e drizzare le politiche estere dei Paesi alleati quando non corrispondevano ai propri interessi ed obiettivi. Ma dato che probabilmente l’Occidente ha sempre saputo di essere quotidianamente spiato e influenzato dagli Usa, quello che creò scalpore fu la condotta dei democratici, in particolare di Hillary Clinton: dallo spionaggio organizzato dalla Clinton nei confronti di Ban Ki-moon, ex segretario generale delle Nazioni Unite, e di altri alti funzionari dell’organismo multilaterale, con tanto di richiesta di password e chiavi di crittografia dei messaggi personali. O ancora la promessa di soldi del FMI e di un incontro privato con Barack Obama a quei Paesi che avrebbero accettato nelle loro carceri uno dei terroristi detenuti a Guantanamo. E ancora: le manomissioni della Nato nelle varie questioni belliche in Afghanistan, i depistaggi in cambio di fraterna amicizia politica, la richiesta ai Paesi amici di lasciar perdere casi giudiziari in cui era morto qualche innocente per mano di soldati statunitensi o della Nato. E, come si diceva, dossier su dossier su ogni politico che poteva rappresentare un problema e che era quindi stato spiato, di certo a sua insaputa.

A tutto questo si dovrebbe aggiungere tutta la documentazione secretata che Wikileaks è riuscita a farci conoscere, che vedono gli Usa essere tutto il contrario del Paese bandiera di quei diritti umani da sempre sfoggiato come propria cifra identitaria: dalla preoccupazione per la forza del Partito Comunista Italiano degli anni Settanta e la presenza di un membro infiltrato della CIA vicinissimo a Moro o l’organizzazione materiale e militare delle squadre militari che avrebbero diretto i colpi di Stato nel cono Sur dell’America Latina fra gli anni Sessanta e Settanta.

Basta fare una ricerca semplicissima su internet per trovare l’infinità di materiale messo a disposizione di chiunque voglia, semplicemente, conoscere la verità. E la verità rappresenta il motivo reale che ha segnato il destino di Julian Assange: dalle accuse di stupro ai mandati di cattura, dall’asilo politico concesso dall’Ecuador di Rafael Correa poi negato da Lenín Moreno che ha concesso di arrestare Assange, il quale si trovava al riparo nell’ambasciata ecuadoriana a Londra.

L’11 aprile 2019 Assange viene appunto arrestato e condotto all’HM Prison Belmarsh, considerata la “Guantanamo britannica”. Si decise per febbraio la data del processo che avrebbe giudicato la colpevolezza di Assange e concesso la sua ‘estradizione negli Stati Uniti, dove possiamo immaginare cosa passerà.

I soprusi subiti ed evidenti per quei pochi che hanno ottenuto di poterlo visitare, le continue violenze psicologiche e lo stato di salute enormemente deteriorato: questo è quello che viene ripetuto dai molti, per fortuna, che hanno alzato la voce per chiedere la liberazione del giornalista e attivista che ha solo fatto il suo dovere. Lo chiede da anni Chelsea Manning, l’ex militare americana che ha rivelato a Julian Assange parte dei crimini di guerra commessi dagli americani in Iraqe in Afghanistan. Notizie correlate da prove scritte e video correlati.

Lo chiede a gran voce la maggioranza dei giornalisti che, proprio in questi giorni, hanno firmato un documento in cui si chiede di negare l’estradizione del giornalista negli Usa. Fra questi ricordiamo Stefania Maurizi che ha lavorato da anni a stretto contatto con Assange dalle pagine de La Repubblica e che due giorni fa ha dato le dimissioni dal giornale. Una grande risonanza ha ottenuto la manifestazione avvenuta a Londra guidata da Roger Waters, una delle poche personalità del mainstream che con coraggio si è espresso su questioni spinose come quella, appunto, di Assange ma anche su Venezuela, Cuba e Siria tentando di scalfire la narrazione a senso unico, comune a destra e a sinistra, dall’Italia agli Usa.

Ma non si è tirato indietro nemmeno chi ha voluto esprimere il proprio disappunto nella speranza che l’Inghilterra propenda verso l’estradizione e Assange possa essere punito negli Stati Uniti. E se ce lo si poteva aspettare dagli organismi governativi direttamente chiamati in causa dalle denunce di Wikileaks è riprovevole leggere firme “democratiche” che giudicano il lavoro di Assange come un pericoloso precedente in grado di minare le basi della democrazia. Come dire: è normale che gli stati che si ammantano di democrazia commettano abusi, mentano, si servano del loro potere per ottenere ancora più potere, a qualunque costo.

Noi, da cittadini, ci uniamo alla richiesta di liberazione per Julian Assange, un uomo che ha esaudito al più alto dei livelli quello che era lo scopo per cui il giornalismo nacque, ovvero essere il cane alle calcagna dei politici.  Che nessun uomo paghi per aver portato la conoscenza della verità a portata di clic.

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