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venerdì, 18 Ottobre 2024

“C’è chi dice no”, Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere

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Nuova Società nasce nel 1972 come quindicinale. Nel 1982 finisce la pubblicazione. Nel 2007 torna in edicola, fino al 2009, quando passa ad una prima versione online, per ritornare al cartaceo come mensile nel 2015. Dopo due anni diventa quotidiano online.

di Alberto Gaino

“C’è chi dice no” è il titolo evocativo del saggio di Amedeo Cottino sulla violenza del potere. Senza aprire il libro – a cura di Zambon Editore – già sai cosa puoi aspettarti dalle sue pagine: voci contro, e in particolare una voce, quella dell’autore, figura di raffinato intellettuale che ha insegnato nelle università di mezzo mondo e maneggia le scienze sociali come un bravo pubblico accusatore il codice penale.

Perché è poi questo il suo vero ruolo: denunciare la violenza strutturale che avvolge anche le democrazie quando promuovono le “guerre umanitarie” con i “bombardamenti chirurgici”. Che non sono affatto chirurgici e provocano “danni collaterali” raramente associati dall’ipocrisia delle parole, se non per il coraggio di qualche reporter, alle vite distrutte di bambini, donne e uomini. Anche quest’ultimi civili e innocenti vittime del nuovo tipo di combattimento, la “caccia all’uomo”, affidata ai droni telepilotati, come ricorda Cottino, da lontane e tecnologiche sale di guerra rispetto al teatro di guerra, quasi sempre un quartiere affollato di civili scelto dai capi terroristi per nascondersi. Ma a noi telespettatori riferiscono solo di Suv inseguiti nel deserto con il loro carico di malvagità.

È proprio come in un videogame. E noi non sappiamo più distinguere dalla finzione la realtà di morte, che digeriamo in abbondanza mentre mangiamo, la testa piegata sul piatto, lo rammenta Marco Revelli nella sua bella prefazione, mentre dal teleschermo escono le notizie e le immagini selezionate che le scortano.

In realtà, questo è soltanto l’ultimo scenario, quello della “normalizzazione della violenza”, che il prezioso saggio di Cottino ci sottopone nelle due ultime pagine. Nelle precedenti 189 riparte dall’orrore più grande del Novecento, il nazismo, la sua soluzione finale realizzata nei campi di sterminio di ebrei, rom, oppositori: dove non ci si limitava a gassare milioni di persone. Prima: le voleva privare di ogni umanità, ridurle visivamente a “razza inferiore”. Come racconta, molti anni dopo, in un’intervista rilasciata in Brasile, il boia di Treblinka, Franz Stangl: «Erano merce, colli», e, aggiunge l’intervistatrice, il comandante del campo «alzò le mani come in segno di resa».

Lo studioso coglie nella Germania dell’ascesa di Hitler  al potere non il “demone assoluto”, alla Nikolaj Stavrogin, che  da Dostoevskij in poi ha contrapposto nella nostra cultura il bene al male senza una terra di mezzo. Cottino coglie nei vari Eichmann («Sono stato un esecutore delle leggi del mio paese», sostenne costui al suo processo in Israele) l’essenza di “demoni mediocri”, “gente come noi”, “ordinaria”, e fa l’esempio del battaglione di riservisti tedeschi, uomini di mezz’età: «Nel 1943, sterminò interi villaggi nell’Est Europa con una ferocia che non risparmiò nemmeno i bambini».  Così come i gerarchi del regime processati a Norimberga «erano persone del tutto normali» (Gilbert).

«Noi cerchiamo la patologia del mostro – scrive Cottino – e ci troviamo di fronte alla banalità del male che Hannah Arendt descrisse in occasione del processo ad Eichmann».

Il nazismo si diffuse come un cancro perché in Germania non vi erano più “culture di riferimento alternative”,  sostenute dalle Chiese, e chi,  fra i tedeschi non aderì attivamente al regime fu “pavido o indifferente”: la terra di mezzo cui si estende la responsabilità di “aver tenuto gli occhi colpevolmente chiusi”, di non aver esercitato senso critico.

Ogni altra lettura – suggerisce lo studioso – preclude la possibilità di dotarsi di anticorpi  culturali di fronte ad analoghi, per quanto mediati, meccanismi che portino alla violenza del potere di turno ad ogni latitudine contro nuove vittime. Come accadde per 2 milioni di cambogiani sterminati dal regime dei khmer rossi di Pol Pot (“che una delegazione svedese riuscì a non vedere”); ma anche per le oltre 200 mila vittime immediate, “atomizzate”, di Hiroshima e Nagasaki;  per  le decine di migliaia di abitanti di Bhopal, intossicati mortalmente da un impianto industriale costruito in India per i bassissimi salari e l’impunità assicurata contro le stragi provocate dall’assenza di sicurezza nel lavoro.

Eppure quella di Bhopal – annota Cottino – fu una strage civile così grave  che si dovette trovare un “capro espiatorio”: un operaio padre di tre figli che per primo avvertì la fuga di gas. L’accusa di sabotaggio  si rivelò un bluff, ma la multinazionale “ci aveva  provato”.

Dopo essersi diffuso sulla “banalità del male” nazista, lo studioso non dimentica “la pulizia etnica dei palestinesi ad opera degli israeliani, sin dal 1947”. Non fa sconti a nessuno, Cottino: «Il silenzio è la risposta più frequente che diamo».

In realtà c’è stato chi ha detto no. Chi l’ha fatto subito di fronte all’occasione che ne ha marcato l’esistenza: il soldato tedesco Joseph Schultz,  chiamato a far parte di un plotone di esecuzione, si rifiuta di sparare su alcuni partigiani jugoslavi e viene immediatamente fucilato con  loro. O l’aviatore americano che, di ritorno dal cielo sopra Hiroshima,  denunciò l’ignominia del bombardamento atomico e fu rinchiuso per anni in un manicomio.

Cottino indica  anche chi disse no se non molto dopo, quando riuscì a rialzare “la propria soglia di compassione” e a “dar prova” di una consapevolezza del male che aveva in precedenza ignorato. Alcune pagine del libro sono dedicate al diario che, negli anni 60, Traudl Junge, segretaria di Hitler riuscì a scrivere prima di morire: la donna passa dal racconto dell’uomo “affascinante” e “molto paterno con me” a quello dell’ “assassino di massa” e scrive che «Hitler usava sempre quelle parole parlando degli ebrei e degli schiavi ed ora capisco che uno si era abituato a sentirle. Era come se uno non le sentisse». Cottino cita anche lo scrittore tedesco Hans Fallada: «Gli arresti fioccavano incessanti durante la conquista del potere nazista e molti degli arrestati venivano colpiti a morte mentre tentavano di fuggire. Noi ci ripetevamo: la cosa non ci riguarda. Noi siamo cittadini pacifici, di politica non ci siamo mai occupati».

Poi, toccò anche a Fallada, «internato in un manicomio criminale all’inizio del  1940 come alienato socialmente pericoloso. Per uscire, il regime lo costrinse a scrivere contro gli ebrei: Fallada era autore molto popolare in Germania. Dopo la guerra, ritornò sul proprio cedimento e scrisse: “Il mondo mi fa schifo e ancor più io a me stesso”. Nel 1947, dopo la sua morte, uscirà il romanzo del suo riscatto: Ciascuno muore solo. Anche Fallada, al pari di Junge e di Vasilij Grossman,  è entrato a far parte della schiera dei Consapevoli». Sia pure, in ritardo, in qualche modo, disse no.

È importante dire no, mostrarsi contro la violenza del potere – è il filo conduttore del saggio – altrimenti non semineremo più  la cultura della tolleranza e della compassione che portò gli abitanti del villaggio francese  di Le Chambon-sur-Lignon a salvare  5 mila ebrei dalla soluzione finale. La stessa collaborazionista Danimarca  fece altrettanto per la quasi totalità della sua piccola comunità ebraica. La Danimarca che oggi registra l’ascesa di un partito xenofobo, all’insegna della paura del diverso, questa volta il migrante, il musulmano. Se non c’è più tolleranza dove era di casa, come è possibile abbattere i muri eretti sempre più numerosi nel cuore dell’Europa storica contro i rifugiati del mondo, gli ultimi? L’analisi di Cottino spezza il pane della speranza rivelando  ciò che gli disse Mario Rigoni Stern sulla pagina del suo “Sergente nella neve” in cui raccontò del piatto di minestra condiviso in un’isba con nemici russi durante la ritirata del nostro esercito. Cottino: «Gli chiesi come mai i russi non gli avessero sparato. Mi rispose: “Perché avevo bussato!”».

La tenue speranza di Amedeo Cottino per il futuro è il saper cogliere le occasioni di convivenza civile e spargerne gli esempi sulle nostre strade.

 

Da “Nuovasocietà” n° 5 del 15 maggio 2016  gaino

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