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venerdì, 18 Ottobre 2024

Bruno Caccia fu ucciso in un torbido scenario di tipo siciliano

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Maddalena interviene sull’inquietante retroterra del delitto eccellente. Raccontiamo gli strani rapporti del mandante con magistrati della città

di Alberto Gaino

Una banale e imperdonabile svista della Procura della Repubblica di Milano ha azzerato il processo contro Rocco Schirripa, accusato di essere uno dei due killer che assassinarono il procuratore capo di Torino, Bruno Caccia. Ciò non significa che la storia di un delitto eccellente debba essere cancellata. O peggio: ulteriormente ignorata. Venticinque anni fa scrissi che Caccia era stato ucciso otto anni prima in un contesto di tipo siciliano: avevo in mente giudici coraggiosi espostisi contro la mafia e assassinati mentre loro colleghi ne aggiustavano i processi. Il servizio non fu nemmeno preso in considerazione.

Dallo sguardo più che perplesso del mio direttore di allora alla lettura di quell’incipit, capii che lo riteneva un azzardo da non meritare nemmeno una parola di commento. Eppure è così che andò e in seguito mi accontentai di dar conto delle relazioni pericolose di numerosi magistrati torinesi di più uffici giudiziari con Gianfranco Gonella e Domenico Belfiore. Quest’ultimo fu condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Caccia. Era il capo di una famiglia calabrese di ‘ndrangheta che aveva messo salde radici nell’economia criminale ed economica della città e costruito un potere oscuro attraverso quelle relazioni pericolose. Giovanna Ichino, il giudice estensore della sentenza di primo grado contro Belfiore (1989), lo scrisse con chiarezza: «È emersa come un dato di fatto incontrovertibile la disponibilità di molti magistrati ad interessarsi delle vicende giudiziarie di affiliati della banda dei catanesi, in un primo momento, e di quella dei calabresi, in seguito». In un altro passo dell’atto giudiziario aggiunse: «Il legame di Gonella con i magistrati suoi conoscenti costituisce il punto di forza dell’organizzazione». Il magistrato milanese elencò meticolosamente numerosi casi di giudici, facendone nomi e cognomi, che giocavano a poker insieme ad esponenti della malavita o che, in occasione di furti subiti, si rivolsero proprio a Gonella perché ritrovasse i preziosi sottratti loro. Il do ut des era finalizzato soprattutto all’aggiustamento di processi e persino al furto di fascicoli giudiziari. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Pavia, cognato di Belfiore e da costui rinnegato dopo il pentimento, raccontò anni dopo il delitto Caccia che era stato fatto sparire un suo fascicolo processuale inviato a Roma, in Cassazione, su richiesta del potente familiare e che gli era stato consegnato presso il Banco dei Pegni di piazza Carignano, alla presenza di Gonella. Gonella era un torinese che, gestendo un bar frequentato da Belfiore e da un altro suo cognato, Placido Barresi, si ritrovò improvvisamente sotto minaccia di estorsione del locale. Erano i primi anni 70: con i due calabresi l’esercente torinese si capì subito e da allora avviò con loro uno stretto rapporto di collaborazione: ne gestì le attività economiche e imbastì per conto loro le relazioni pericolose con numerosi magistrati grazie alla sua lunga frequentazione di Luigi Moschella, sino al 1979 sostituto anziano della Procura della Repubblica di Torino (in quel ruolo sostenne la pubblica accusa nel primo processo alle Brigate Rosse) e da quell’anno promosso procuratore capo di Ivrea. Cinque mesi dopo il delitto Caccia furono ancora intercettati colloqui fra certi magistrati e soggetti vicini alla criminalità organizzata, in particolare fra Moschella e Gonella. Utilizzavano però un linguaggio criptico, di chi sospettava di essere ascoltato. Bruno Caccia, magistrato tutto di un pezzo, diventa procuratore capo di Torino nel 1980 e si mette subito al lavoro contro la corruzione dei colletti bianchi e la rete criminale della malavita organizzata. Non fa sconti come certi magistrati, anzi promuove l’azione giudiziaria che aggredirà le attività economiche della famiglia Belfiore e di Gonella: il Banco dei Pegni nella centrale e storica piazza torinese, la gioielleria Corsi di via Roma (conquistata dai Belfiore dopo una lunga scia di rapine, anche sanguinose, che avevano legato la Torino nera alle incursioni dei Marsigliesi). E poi tutto il resto: una finanziaria, un’azienda di trasporto e di distribuzione di prodotti ittici, locali pubblici, società immobiliari a Torino e nella Riviera di Ponente, un castello. Come si arricchissero i Belfiore è riassumibile in una piccola storia che chiarisce soprattutto il lato oscuro delle relazioni di Gonella: per consolidare il clima di convivialità con i soliti magistrati ed estenderlo a Belfiore e ad altri calabresi – che in pubblico non potevano avere certe frequentazioni – quell’intraprendente signore pensò bene di organizzare cene settimanali fra gli uni e gli altri in una trattoria tipica della città, il “Cont Piolet”. I titolari del locale si resero conto chi fossero gli ospiti dei calabresi e costoro, a loro volta, si resero conto che i ristoratori avevano capito. Così decisero di sottrarre loro l’avviata trattoria con la classica estorsione di chi si sentiva impunito. La stessa modalità cui erano ricorsi per impossessarsi del bar di Gonella. Questa storia e la sua fine la mise nero su bianco in un atto giudiziario un giovane pm, Paolo Borgna, oggi procuratore aggiunto a Torino: i titolari del “Cont Piolet”, marito e moglie, non videro altra scelta che chiudere bottega e scapparsene in Spagna. Per sorvegliare gli altri magistrati a casa loro – il palazzo della Procura, di via Tasso – Gonella aprì al pianterreno dello stesso edificio un bar intestato alla sua convivente, la bionda ed avvenente Monique Delville.

Intanto il sorvegliato Caccia indagava sull’infiltrazione della mafia nei casinò, avviava l’azione penale contro politici di rango finiti nella rete delle promesse corruttive, in cambio di lucrosi appalti pubblici, di un singolare personaggio: l’ “alpino” veronese Adriano Zampini, precursore dei futuri faccendieri di Tangentopoli. E soprattutto rilanciava con nuovi accertamenti le accuse a numerosi petrolieri che azzerarono i vertici italiani della Guardia di Finanza. Il 1983 fu anno di svolta della politica giudiziaria torinese. E Caccia il 26 giugno di quell’anno fu colpito a rivoltellate da due killer. Comparvero nel buio della sera – una domenica elettorale – in via Sommacampagna dove, scendendo di casa, il magistrato camminava sul marciapiede portando a spasso il proprio cane. A poche decine di metri scorreva l’ultimo traffico d’auto sul corso Moncalieri. Una Fiat 128 verde piombò rombando sulla stretta strada in salita per affiancare i passi di Caccia. Chi era al volante lo crivellò di colpi. L’altro killer, al suo fianco, scese e finì il procuratore capo steso a terra. Volevano essere sicuri che non sopravvivesse all’agguato. La cronaca registrò l’ora dell’assassinio: le 23.30. Nel dicembre di un anno fa la magistratura milanese fece arrestare come secondo killer di Caccia, quello sceso dall’utilitaria a dargli il colpo di grazia, Rocco Schirripa detto “Barca”. Una vecchia conoscenza della malavita calabrese che da decenni impastava il pane nel suo forno di piazza Campanella. Fu un colpo di teatro lo stratagemma di inviare a Belfiore, uscito dal carcere pochi mesi prima per motivi di salute, una busta anonima con una fotocopia de “La Stampa” che riportava la notizia e i primi servizi sul delitto eccellente. E un foglio. Su cui era stato scritto: “Se parlo andate tutti alle Vallette. Eesecutori: Mimmo Belfiore – Rocco Schirripa. Mandanti: Placido Barresi – Mimmo Belfiore – Sasà Belfiore”. Erano state ripescate antiche confidenze di Pavia. E si era deciso di gettare un’esca all’ergastolano scarcerato e ai parenti rimastigli fedeli.

Gli smartphone degli interessati erano intercettati da remoto, con un virus, e i poliziotti poterono ascoltare l’agitarsi di Mimmo Belfiore con il cognato Barresi e di costui con il fornaio: sospettavano che fosse stato Schirripa l’autore della anonima missiva. “Barca” assicurò loro che era stato sempre tranquillo negli ultimi 32 anni. Ma pronunciò qualche parola di troppo nel cercare di chiamarsi fuori. E venne arrestato. In Corte d’Assise Schirripa si è proclamato innocente. Belfiore ha fatto altrettanto. L’epilogo del processo è stato ancora più sorprendente. Le cronache dei giornali non sono state avare di dettagli, ma non hanno colto l’occasione di rievocare lo scenario in cui maturò il delitto eccellente. La memoria del passato si sta smarrendo e la ravviverà opportunamente la ricerca di Paola Bellone. Pubblicata da Laterza, uscirà in libreria a gennaio con un titolo fortemente evocativo: “Tutti i nemici del procuratore”.

Nel tempo libero dal suo impegno di magistrato onorario, la studiosa ha ricostruito meticolosamente l’omicidio Caccia e il suo scenario. Il lunedì seguente a quella sera di sangue, gli investigatori cercarono i primi indizi di un movente fra le carte ordinate sulla scrivania di Caccia, in ufficio. Vi trovarono anche «atti relativi – scrisse il giudice Ichino nel 1989 – al dottor Moschella e ai suoi rapporti con gli imputati di contrabbando di oli minerali». Il procuratore capo stava mettendo nel mirino lo spregiudicato collega. Che, in seguito al suo omicidio, si dimise dalla magistratura e venne arrestato, processato e condannato. Ma per il reato di ricettazione di oggetti preziosi con bella gente di quel milieu criminale che gli era così contiguo. Altri magistrati coinvolti in quelle pericolose relazioni uscirono assolti dai loro processi. Altri ancora non furono nemmeno processati o anche solo inquisiti. Oggi Marcello Maddalena, che fu molto vicino a Caccia ed era ritenuto il secondo grande nemico di quella famiglia di ‘ndrangheta, dice al telefono: «Può scrivere che il delitto del procuratore ebbe un torbido scenario di tipo siciliano».

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gainobrunocaccia

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