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martedì, 22 Ottobre 2024

Avere il coraggio di abolire “l’appello”

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Otto milioni i casi giudiziari in arretrato. Si cerca l’impunità attraverso la prescrizione.

di Gian Carlo Caselli

Sui problemi della giustizia italiana grava un macigno di proporzioni colossali, un arretrato pesantissimo: circa otto milioni di cause fra civile e penale. Ora, poiché si va da tempo registrando – nei grandi numeri – una sostanziale coincidenza tra processi sopravvenuti e processi esauriti nell’arco di ogni anno giudiziario, ecco che proprio nell’arretrato va individuato un nodo nevralgico, da sciogliere con un progetto coraggioso e condiviso. Altrimenti saremo ogni volta da capo: a piangerci addosso, registrando un’impotenza sempre più degradante.

Per impedire che qualunque riforma vada a schiantarsi contro la montagna dell’arretrato, bisognerebbe – a mio giudizio – avere il coraggio di abolire “tout court” il grado di appello. Innanzitutto perché fra tutti i Paesi di democrazia occidentale che hanno un sistema processual-penale di tipo accusatorio (com’è diventato anche il nostro a partire dal 1989) siamo l’unico che ha più gradi di giudizio, invece dell’unico grado – con eventuale possibilità di ricorrere ad una corte suprema – che altrove è praticamente la regola. È dunque una questione di sistema, che non si risolve tenendo i piedi in due staffe. Poi perché con l’abolizione dell’appello si potrebbe appunto sperare di cancellare l’arretrato.

Se i magistrati ed il personale amministrativo oggi impiegati in appello fossero destinati a lavorare soltanto sull’arretrato, questo potrebbe sparire in due/tre anni. Dopo di che i magistrati ed il personale amministrativo del “defunto” appello potrebbero essere convogliati sul primo grado, accelerando i tempi del processo che, con un grado in meno, sarebbero già di per sé molto abbreviati. Così, l’altro gravissimo male della nostra giustizia, la durata interminabile dei processi, avrebbe finalmente qualche prospettiva di miglioramento.

La mia idea – lo so bene – è assai poco condivisa, anzi decisamente osteggiata (con reazioni anche da sfida all’ OK Corral….) dalla classe degli avvocati. Si sostiene che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera, autentica garanzia uguale per tutti sta in un processo breve che possa puntare ad una giustizia certa. Non in un processo che è diventato un percorso ad ostacoli pieno di trappole e di insidie (le disfunzioni e gli errori dell’apparato giudiziario – si pensi alle notifiche – raramente possono essere sanati senza che si determino ulteriori gravissimi ritardi).

Un processo infarcito di regole nel quale il confine fra garanzie e formalismi (quando non privilegi) è spesso sottilissimo. Regole opponibili a piene mani da chi – potendosi permettere difese agguerrite e costose – punta all’impunità attraverso la prescrizione. Mentre sono di fatto arretrate le garanzie verso il basso, vale a dire effettivamente applicate anche ai soggetti più deboli. Quantomeno si dovrebbe riscrivere il sistema delle impugnazioni. Oggi, per andare subito ad un esempio concreto, l’imputato confesso di un reato da niente, perciò condannato al minimo della pena, ricorre lo stesso. Sempre e comunque. In appello la pena (reo confesso condannato al minimo) sarà ovviamente confermata. Al che l’imputato – sempre più incredibile – ricorre persino in Cassazione, pur sapendo che non c’è niente da sperare.

Morale: tutti ricorrono, il sistema si ingolfa, i tempi rallentano e i processi si allungano. Occorrono (e non si fa) dei filtri di grado in grado, che impediscano o fortemente sconsiglino i ricorsi inutili.

Per esempio si potrebbe finalmente abolire un retaggio del diritto romano, il cosiddetto divieto di “reformatio in pejus”, grazie al quale se a ricorrere è soltanto lui, l’imputato non rischia assolutamente nulla, perché è vietato peggiorare di un solo giorno o di un solo euro la condanna già inflitta. Ultracomodo, al punto che non ricorrere è masochismo. Uno scandalo permanente, poi, discende dal fatto che solo in Italia, unica fra i Paesi civili, la prescrizione non si interrompe mai. Ovunque altrove si interrompe con il rinvio a giudizio o con la sentenza di primo grado, o – a tutto concedere – con quella di appello. Da noi niente. E allora conviene sempre allungare il brodo all’infinito perché arrivi la prescrizione che tutto azzera. Ma così i processi funzionano come una presa in giro. Le frontiere fra lecito ed illecito, fra morale ed immorale si stingono fino a scomparire. Il risultato finale è l’impunità per chi può e conta.
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caselli

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