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venerdì, 18 Ottobre 2024

Una Chiesa smarrita?

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Papa Francesco, ormai al suo ottavo anno di pontificato, sarà certo ricordato per svariate ragioni, tra le quali e tutt’altro che ultima, quella di avere guidato la chiesa nel tempo del coronavirus. Un’eccezionalità che nessun papa vorrebbe iscritta nei propri annali, un’impresa ardua, senza precedenti nel recente passato cui rifarsi per evitarne almeno gli esiti più catastrofici.

Certo nel suo cammino la chiesa è stata compartecipe, e spesso concausa, di calamità devastanti. Periodiche le pestilenze e le carestie, quasi permanenti le guerre, feroci e distruttive. Ne è documento un’invocazione, ancora ricorrente ai giorni nostri in qualche celebrazione religiosa: “A peste, fame et bello libera nos Domine”, liberaci, o Signore, dalla peste, dalla fame e dalla guerra. Un’implorazione che, nella religiosità più sentita e partecipata del passato, aveva una  giustificazione teologica, essa pure giunta fino a tempi non lontani: ogni piaga, ogni sciagura, infatti, era manifestazione dell’ira di Dio che in tal modo richiamava l’uomo peccatore al rispetto della sua legge. Era il “chi va là!” del Dio dalle due qualità apparentemente antitetiche, ma in lui armoniosamente coerenti: l’infinita misericordia e l’assoluta giustizia. Invocando la prima e ricollocandosi sul sentiero della sua legge, il perdono era accordato e l’offesa dimenticata. Un Dio, insomma, la cui paternità non rifuggiva dall’uso della frusta. Di qui la preghiera, il digiuno e le processioni penitenziali che hanno caratterizzato nei secoli la pietà cristiana, lentamente scematesi con lo svilupparsi d’un’indagine più razionale e causale dell’umana vicenda e dell’ambiente in cui da sempre si dipana.

A queste forme di religiosità non ha del tutto rinunciato papa Francesco nell’attuale tragedia, pellegrinando in due luoghi sacri che conservano memorie di passate epidemie. La chiesa di San Marcello al Corso, raggiunta da Francesco facendo a piedi un tratto di strada, dove è conservato il crocifisso ligneo che, durante la peste del 1522, fu portato per più giorni in processione per le vie di Roma, al cui passaggio, così scrivono le cronache del tempo, la peste cessava. La Basilica di Santa Maria Maggiore ove è venerata l’icona della Madonna davanti alla quale, nel 1837, s’inginocchiò papa Gregorio XVI invocando la fine dell’imperversante colera

A questo pellegrinaggio in solitudine in un imbronciato pomeriggio domenicale, Francesco ha fatto seguire un evento almeno all’apparenza estemporaneo. Al calar della sera del piovoso 8 aprile scorso, sullo sfondo della basilica di San Pietro a portale spalancato e con ai lati rispettivamente il Crocifisso miracoloso e l’Immagine della Madonna, già mete del suo pellegrinaggio, si stagliava la bianca figura di Francesco: davanti l’immenso piazzale deserto tristemente illuminato da sei fiammelle contrastate dall’insistente pioviggine. Frutto o no d’un’abile regia, uno scenario impressionante e coinvolgente. Quella bianca figura in solitudine configurava una chiesa smarrita, priva del suo popolo e dei suoi riti, alla quale, i tempi mutati e possibili contagi, sottraevano la possibilità di momenti comunitari di preghiera, non più, almeno per molti credenti, per scongiurarne l’ira, ma per invocare l’aiuto e il conforto dal Padre celeste.

Altri tempi, dunque una rinnovata figura di Dio, attinta dalla parabola del figliol prodigo nella quale il padre non condanna l’ingratitudine e l’arroganza del figlio scapestrato, ma attende pazientemente il suo ritorno per riabbracciarlo e festeggiarlo senza lagnanze né rimproveri. Non più il Dio categoricamente giusto, ma il Dio smisuratamente misericordioso, recuperato da Francesco nelle pagine bibliche e insistentemente da lui predicato. In nome di questo Padre e invocandone la protezione, quella sera benediceva un’umanità nuovamente piagata.

Francesco, però, consapevole che il sapere umano sia oggi più che sufficiente a spiegare le tragedie ritmicamente disseminate nel corso della storia, non si è limitato, durante il suo pontificato, a ritoccare il volto di Dio. Ha fatto e fa ben di più e senza sconfinare dall’ambito religioso, anzi proprio recuperando ad esso un campo finora indagato da ambientalisti e climatologi, ma pessimamente gestito dai governi nonostante le riconosciute sue gravi problematiche: l’ecologia. Biblicamente fondata, l’enciclica Laudato si’ è entrata con forza in quell’ambito, decisivo per la sopravvivenza dell’umanità stessa e prima solo marginalmente sfiorato dalla chiesa. Il Creato è stato consegnato all’uomo da Dio perché lo coltivasse traendone sostentamento.

L’uomo non ne è padrone assoluto e, per giunta, irresponsabile come si dimostra nonostante il veloce aggravarsi delle condizioni della biosfera, che è comune patrimonio di tutti gli esseri che vi convivono. Essa non può essere abbandonata al dominio di branchi di potenti avidi e violenti, oggi identificabili in un multi tentacolare capitalismo ladro e distruttivo. Francesco, facendo della questione ecologica un’area di competenza anche della religione, ha associato la chiesa al fronte dei combattenti per la salvezza della Natura in tutte le sue componenti. La sua visione d’un’ecologia “integrale”, che ha animato il dibattito del Sinodo sull’Amazzonia, da “sogno” si è trasformata in impegno attivo e permanente della chiesa.

Vittorino Merinas

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