Era lo scorso ottobre quando un collaboratore freelance, anche della nostra testata, si trovava in Turchia, in particolare nelle province di Istanbul e Diyarbakir, come inviato e per documentare la situazione alla vigilia delle elezioni del 2 novembre. Durante il viaggio, il cronista era stato in diverse località, tra cui Silvan, piccolo centro nella provincia di Diyarbakir, nel sud-est del Paese, dove una dipendente della locale municipalità si era offerta di accompagnarlo in giro per la città.
Una volta trovatisi in una strada del centro cittadino la donna, Narin Capan, il giornalista e un suo collaboratore erano stati fermati da alcuni agenti in borghese che li hanno posti in stato di fermo e accompagnati in un vicino commissariato.
È cominciata così una giornata surreale, con ore di attesa in diverse stazioni di polizia, lunghi interrogatori e addirittura un prelievo forzato di sangue accompagnato dall’archiviazione di foto segnaletiche e impronte digitali per tutti e tre i fermati.
La ragione del fermo è a tutt’oggi poco chiara.
La polizia accusò il freelance di aver camminato in “closed areas”, ossia in parti della città chiuse da barricate costruite dalla guerriglia curda. A precisa domanda di un avvocato che telefonò da Istanbul, ammisero però che non c’era né proibizione di recarsi in talune parti della città, né queste ultime erano segnalate da cartelli o indicazioni stradali. Dopo una giornata intera i tre vennero rilasciati ma con la perdurante accusa di “propaganda di un’organizzazione terroristica”, dove tale organizzazione sarebbe stata il Pkk (partito dei lavoratori del Kurdistan) che avrebbe, secondo l’accusa, costruito quelle barricate.
Due giorni fa la polizia turca si è recata a casa di Narin e l’ha tratta in arresto.
L’accusa? “Offesa allo stato”, per aver dato “una cattiva immagine della Turchia” a giornalisti stranieri. Inoltre si accusa la donna di aver conservato sul suo cellulare, che fu sequestrato in quell’occasione, una fotografia che la immortalava nella città di Kobane, nel Kurdistan siriano, e per questo di essere “membro delle Ypg”, ossia delle unità di protezione popolare curde in Siria considerate dal governo turco a loro volta organizzazione terroristica.
A quanto ci risulta invece Narin Capan vive a Silvan e non è membro di alcuna organizzazione politica in Siria, tantomeno le Ypg, sulla cui definizione come “organizzazione terroristica” esiste tra l’altro una controversia internazionale, visto che gli Stati Uniti, ad esempio, le considerano il movimento democratico che più di ogni altro sta combattendo l’Isis sul fronte siriano e si coordinano con esse sul piano militare.
Il nostro sospetto è che Narin paghi il fatto di aver fornito aiuto a dei corrispondenti stranieri nello svolgere il loro lavoro di giornalisti, in un Paese che spesso ha mostrato di mal tollerare l’informazione su ciò che accade al suo interno. Questo fatto, al nostro avviso grave visto che Narin è tutt’ora in carcere e rischia una condanna pesantissima, mostra ancora una volta come la libertà di stampa in Turchia sia ad oggi calpestata.
Non sono bastati gli arresti (peraltro dichiarati illegali dalla corte suprema turca) di giornalisti, troppo critici verso il presidente Erdogan, la chiusura di testate di rilevanza nazionale e le accuse di propaganda terroristica verso migliaia di intellettuali turchi e internazionali (tra cui Immanuel Wallerstein e Noam Chomski).
Adesso anche comuni cittadini finiscono in manette per aver semplicemente aiutato per mezza giornata dei giornalisti italiani a volgere il loro compito. Addirittura nel caso di Narin Capan, facendo il proprio lavoro, quello di dipendente del comune di residenza che mostra la propria città a visitatori stranieri.
Se a Silvan, prima delle elezioni, alcuni quartieri erano occlusi da barricate a causa dei conflitti che interessano il Paese, ciò non era certo responsabilità di Narin Capan, né del nostro corrispondente o del suo collaboratore.
La redazione di Nuovasocietà spera nell’immediata liberazione di Narin e invita le istituzioni italiane ed europee ad intervenire in maniera efficace affinché il governo turco rispetti la libertà di espressione e di stampa come previsto dalle norme internazionali.
La redazione di Nuovasocietà