La recente Assemblea Nazionale del Pd non ha sortito particolari sorprese, stando agli annunci “ultimativi” e “irreversibili” evocati da alcuni organi di informazione. Come, del resto, era ampiamente prevedibile. Perché un conto è evocare a getto continuo “scissioni”, “spaccature verticali e definitive” e “formazione di nuovi partiti” con le interviste, le comparsate nei vari talk televisivi e tramite i consueti tweet. Altra cosa, invece, è dar vita ad un partito, ad una organizzazione e alla ricerca e al consolidamento di un nuovo bacino elettorale. È un vecchio copione, questo. Molto simile a quella disputa tra ragazzi quando, dopo un ennesimo battibecco in un campo da gioco, c’è sempre quello che dice “tenetemi o spacco tutto..” La speranza è sempre che qualcuno lo tenga, perché altrimenti i veri guai li prova sempre e soltanto il lui, cioè il provocatore di turno…
Ma, al di là di questa oggettiva similitudine popolare, c’è un dato politico che è emerso dall’Assemblea romana: e cioè, finalmente il confronto politico nel Pd è stato civile, vero e partecipato. Un elemento non secondario per la politica italiana, dove i “partiti proprietari” e “l’uomo solo al comando” nei rispettivi partiti sono diventati gli elementi costitutivi e strutturali di quasi tutti i soggetti politici. Nessuno escluso. Elementi trasversali che purtroppo attraversano tutti gli schieramenti e tutte le culture. Bene, il dibattito all’Assemblea Nazionale del Pd ha, per il momento, indebolito questo clichè e ha consegnato, invece, un dibattito autenticamente democratico. E quando c’è un dibattito democratico e libero, normalmente c’è una maggioranza e c’è una minoranza. Sempre. Solo nei partiti dove la democrazia è bandita alla radice tutti concordano con il “verbo” del capo, cioè del padrone di turno.
E il confronto tra il segretario e i suoi sostenitori da un lato – da Fassino a Giachetti, da Scalfarotto a Fiano – e gli esponenti della minoranza, tra tutti Cuperlo, Fassina e D’Attorre, si è svolto sul terreno politico e dei contenuti programmatici. A partire anche, e soprattutto, da come si garantisce una libera e vera cittadinanza politica a tutte le varie sensibilità culturali e politiche presenti all’interno dello stesso partito. Del resto, se il Pd vuol continuare ad essere un “partito plurale”, dominato dal confronto e non dall’adulazione nei confronti del “capo” di turno, questo resta l’unico metodo da seguire. Un confronto che, come ovvio, non può e non deve degenerare in una contrapposizione frontale. Peggio ancora se di natura personale. E, soprattutto, non può trasformarsi in una sorta di blocco o di rallentamento dell’azione del Governo. Dopodiché, il dibattito sul profilo del Pd, sul progetto del Pd e sulla garanzia di consolidare una spiccata democrazia interna al Pd sono tutti elementi che non possono essere sacrificati sul’altare di un grigio unanimismo nel partito. E se prevale il metodo del confronto e del profondo rispetto della pluralità che anima e caratterizza l’attuale Pd, è persin scontato affermare che qualunque sia l’argomento da affrontare – la politica italiana, come ben sappiamo, è sempre transizione ed emergenza – non si corre sempre il rischio di minacciare scissioni, provocare sfracelli o imporre degli ordini. Un partito autenticamente democratico non teme il confronto interno, anche acceso, perché rientra nelle sue corde e nel suo dna.
Ecco perché la recente Assemblea Nazionale del Pd ha segnato un significativo passo in avanti nella storia, seppur recente, del partito. Un passo in avanti nel rispetto, e nel recupero, della democrazia. Che, non dimentichiamolo, di questi tempi difetta parecchio nella cittadella politica italiana.