Scritto da Vittorino Merinas
Altro aspetto problematico dei viaggi apostolici papali è quello politico che sempre ha impegnato l’abile e sperimentata diplomazia ecclesiastica a destreggiarsi per adeguarsi alla realtà politica dei Paesi visitati, celebrando e benedicendo quelli sintonici e disturbando il meno possibile gli altri. Dalla cittadella vaticana solenni reprimende e condanne, sul posto parole attentamente calibrate, giudizi ammorbiditi, atteggiamenti concilianti. Francesco in questo non appare diverso dai suoi predecessori e gli esempi non mancano. Nel 2017 in Egitto fu accolto ed applaudito dal presidente in persona, Al Sisi, noto per il colpo di Stato, lo sterminio dei Fratelli musulmani, la violenta repressione d’ogni manifestazione avversa al suo dispotismo.
Ancora lo scorso 7 dicembre si è dimostrato riconoscente per le distrazioni pontificie, quando, attraverso il suo ministro degli Esteri in visita a Francesco, fece a lui pervenire il suo apprezzamento per il ruolo del Vaticano nella promozione della tolleranza, della misericordia e della giustizia. Da che pulpito! Sempre nel 2017, nel viaggio in Birmania, Francesco non pronunciò la parola “Rohingya”, popolo islamico ivi martoriato e cacciato, se non al suo arrivo in Bangladesh: “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya. Continuiamo a stare vicino a loro perché siano riconosciuti i loro diritti”. Altro esempio della realpolitik vaticana, accettata da Bergoglio, nel recente viaggio in Giappone, quando, sorvolando i Paesi di quell’area politicamente scossa, fu ben attento ai termini usati nei telegrammi di saluto: la sola Cina fu riconosciuta “nazione”, mentre Hong Kong, in lotta per la sua autonomia, fu classificata “territorio” e Taiwan, pur se in relazioni diplomatiche con la Santa Sede, “popolo”. Un abile nominalismo per non irritare il “Paese di mezzo” nell’attesa di poterlo conquistare.
I frutti di queste macchinose, costose, fastose e diplomaticamente contorte spedizioni papali? Certo negli spettatori credenti resterà la memoria del candido uomo nel quale la fede fa tralucere il Cristo salvatore e non dimenticheranno le emozioni provate e, magari, la commozione nell’averlo fortunosamente sfiorato con le proprie mani. Sul posto rimarrà qualche targa che il tempo renderà insignificante e nei non credenti forse il ricordo dello stupore provato nel vedere una folla entusiasta e plaudente, per ragioni a loro ignote, una bianca figura fuggevolmente intravista. Certo i papi pellegrini si proponevano ben altro e Francesco continua a proporselo: manifestare alle chiese sorelle la vicinanza ed il sostegno della chiesa che presiede nella carità, sostenere la loro fede spesso contrastata e perseguitata, stimolarle ad una forte testimonianza di vita ed alla missionarietà. Desideri ed intenti certo sinceri, ma conseguiti, se conseguiti, a quali costi?
A varcare per primo i confini italiani fu Paolo VI, quasi a riprendere i cammini di quell’altro Paolo da cui il suo nome. Viaggi brevi e semplici per un incontro diretto col mondo, sentirne nell’immediatezza le pulsioni, rilevarne indicazioni per il suo ministero. Dopo comparve Wojtyla, attore talentuoso poi sacerdote e vescovo, attratto dai viaggi oltre confine d’un Paese comunista, ma del quale la chiesa era da secoli colonna portante e, pur con maggiori difficoltà, ancora domina. Con lui lo spirito paolino dei viaggi pontifici cedette il passo allo spirito della chiesa polacca, fiera di sé e ferrea nei suoi principi. Difficile dimenticare i suoi viaggi spettacolari, le cerimonie fastose, lui sicuro e ritto baculum pastorale in pugno, maestosamente troneggiante su una folla ivi convogliata dalle organizzazioni ecclesiastiche. Con lui la chiesa polacca si pose alla guida della chiesa universale, nel tentativo, risultato a tutt’oggi vano, di trasformarla, in anticipo e quaggiù, da “chiesa militante” nelle terrene bufere, in “chiesa trionfante” celeste.
Dopo di lui il baculum passò al suo teologo di fiducia, Ratzinger. Breve governo e meno viaggi, nei quali la dottrina primeggiò sulla grandeur wojtyliana. Ora è la volta di Francesco, un papa che da quasi sette anni sta cercando di ri-inoculare nell’istituzione ecclesiastica l’umiltà e la povertà delle sue origini, da secoli fioche. Un tentativo da molti fortemente condiviso ed atteso da tempo, dal quale, però, i suoi viaggi appaiono esclusi, continuando a scorrere sulla falsariga di quegl’altri. Poco sanno del pellegrinaggio inteso da Paolo VI e dal Paolo convertito sulla via di Damasco, né richiamano gli “ospedali da campo” o le“periferie del mondo”, vocazione della chiesa, giacché dov’egli mette piede tutto è stato tirato a lucido per l’occasione.