C’è poco da fare. Nebbia, neve o filari di uva perdono tutto il loro fascino davanti alla morte. Piccoli pezzi di una cornice che si scontrano violentemente con la realtà: il rumore del lavoro di una ruspa che scava nel fango e che non cerca nulla. Scava solo perché deve ripulire. E così è stato il 18 ottobre quando le pale di un mezzo meccanico portano a galla, dal canale di scolo Rio Mersa, delle ossa.
È mattina e le agenzie stampa battono la notizia che da una svolta al giallo di Elena Ceste, una donna di 37 anni, madre di quattro figli, scomparsa il 24 gennaio dalla sua villetta di Costigliole d’Asti, frazione Motta. Da quel giorno d’inverno gli appelli sono stati molti, come le segnalazioni e le ricerche. Ma Elena non verrà mai ritrovata viva. La Ceste è in quelle ossa.
E mentre piano piano, sopralluogo dopo sopralluogo, i resti da inviare al medico legale Francesco Romanazzi, incaricato dalla Procura di Asti, dal magistrato Laura Deodato, affinché ricostruisca gli ultimi istanti di vita della madre di Costigliole, aumentano e dal fango affiorano anche i primi indizi.
Ormai è certo che si tratti di omicidio, ma siamo nelle campagne dell’astigiano e soprattutto nella realtà e non nella finzione di una serie Tv alla Csi dove in 50 minuti ti risolvono il caso, con arresto e magari anche condanna del colpevole. La realtà è nel duro lavoro degli inquirenti, perché se è vero che “i corpi parlano” bisogna essere capaci anche a sentire e tradurre quel che dicono.
Così basta un pezzo di telo che i carabinieri scoprono proprio in quel canale di scolo per aiutare a capire. Finisce dentro una busta gialla, come quelle del pane per intenderci, anch’essa da spedire ai laboratori di analisi.
Il telo è di quelli agricoli, usati per proteggere dal gelo. Ma se i sospetti troveranno una conferma lo stesso tipo di telo è servito per proteggere l’assassino. Celare il corpo senza vita di Elena, spogliato dai suoi vestiti, per inscenare una follia che porta al suicidio, figlia di sensi di colpa, o un’assurda dinamica di un rapimento.
Una sorta di sacco dove rinchiudere la vittima per sbarazzarsene. Magari mentre le ricerche si sono spostate o si stanno concentrando in altri luoghi. Quasi tutti da queste parti hanno teli simili nel garage di casa o nel cortile. Non bisogna possedere molto terreno per giustificarne la presenza in casa. Basta quel lembo davanti alla villa, un semplice giardino.
L’assassino ha studiato bene come muoversi. È riuscito a restare calmo, a ragionare. Ha studiato, anche se in una frazione di secondo, come non farsi scoprire, come allontanare dal lui o lei il dubbio che alla fine potrebbe essere verità e dunque castigo. Poi si è affidato alla natura: doveva aiutare a nascondere. Invece non è stata una buona complice. Anzi. La stessa natura nove mesi dopo, sotto forma di alluvione, ha fatto riemergere le ossa della donna, proprio mentre la morsa delle indagini si stava allentando, come troppe volte accadde quando qualcuno scompare.
Sono ancora molte le domande senza risposte. Quel canale di scolo è un inizio. Però c’è ormai qualcosa di certo: quello che analizzeranno nelle prossime ore gli investigatori, di telo agricolo ormai non ha nulla.
Per Elena Ceste da gennaio quello è stato il suo ultimo abito, il suo sudario.