di Moreno D’Angelo
Intervenendo al Parlamento sulla crisi libica il ministro degli esteri Paolo Gentiloni, ridimensionando gli umori interventisti emersi nel governo in questi ultimi giorni, ha affermato che l’unica soluzione è politica precisando: «Non vogliamo avventure e tanto meno crociate».
Sul negoziato in partenza, sulla polveriera libica, divisa tra gruppi tribali e bande fondamentaliste, dove è difficile scorgere autorevoli interlocutori, il ministro ha dichiarato: «La situazione in Libia si aggrava. Il tempo non è infinito e rischia di scadere presto». Per sviluppare tale azione Gentiloni chiede alla comunità diplomatica di aumentare gli sforzi, per fronteggiare in tempi rapidi, il deterioramento della situazione sul territorio che impone un cambio di passo da parte della Comunità internazionale prima che sia troppo tardi.
Una situazione sempre più esplosiva sul piano della sicurezza, come dimostrato dall’attacco all’Hotel Corinthia, dalle ripetute incursioni in campi petroliferi e da ultimo dalla barbara uccisione di 21 cristiani copti a Sirte. «Un quadro – ha ammesso il ministro – che ci ha portato a decidere la chiusura della nostra ambasciata, l’ultima rimasta aperta a Tripoli».
Indubbiamente dietro questi discorsi che hanno momentaneamente accantonato le posizioni di “pronto intervento militare”, facendo prevalere l’azione diplomatica, vi è il peso della linea portata avanti dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Inoltre quanto è successo con i bombardamenti e le azioni militari contro le postazioni Isis a opera dell’esercito egiziano, giordano e ora tunisino, ha contribuito in qualche modo ridimensionare, al momento, le mire interventiste in Occidente.